DUE O TRE COSE SU LOU REED

il bureau - Bobi Raspati - Note Dolenti

di Bobi Raspati

Ebbene sì, due giorni fa è morto Lou Reed e noi ci siamo rimasti malissimo. Certo che se l’era andata a cercare, in quei 71 anni vissuti da malato cronico, dominato da una caterva di tic e ansiolitici. Eppure è stata una notizia inaspettata, 71 anni non sono pochi ma manco tanti e chissà quante altre raggelanti sorprese ci avrebbe riservato, se la natura avesse mostrato un po’ più di rispetto verso le nostre affezioni. Quante parole sono state buttate via in queste ore qui? Da Assante al principe Emanuele Filiberto, da Scanzi a Formigoni, quanti hanno versato il loro accorato tributo al nostro amato Lou? Che senso ha scriverne adesso?

Beh, il fatto è che con Lou Reed ci siamo cresciuti tutti, ma noi di Note Dolenti più di altri. E allora diciamolo chiaro e tondo, che il buon Lou da New York ha anticipato e ispirato quasi tutto quel che ci importa e piace della musica – nichilista, atonale, lirica, rumorosa, minimale, patetica, frigida, ripetitiva, o libera che sia. Con buona pace di chi ora ne ridimensiona comicamente la statura artistica o ne profana impavido le vestigia. Ecco un paio di note dolenti su Lou Reed, il minimo sindacale per mettere un po’ di puntini sulle i (quelle di Reed ovviamente).

Chi in questi giorni ha rispolverato le varie ‘Perfect Day’ e ‘Satellite of Love’ sappia che la grandezza di Lou Reed non stava certo nella capacità di scrivere belle canzoni. Cantante monocorde, appassionato di avanguardia e free jazz (com’è noto, soprattutto Ornette Coleman), il suo merito sta nell’aver sconquassato i canoni del rock per ampliarne spaventosamente gli orizzonti espressivi. Il che non significa certo che non sia possibile rinvenire melodie terrificanti nel suo canzoniere (tra tutte, io segnalerei questa). Ma che, diversamente da altri totem del rock, ben più concilianti nei riguardi del vostro pigro conservatorismo, se siete gente da karaoke il ragazzo non è proprio roba per voi. Con Lou Reed, o ancora meglio coi suoi Velvet Underground, il rock ha improvvisamente cessato di campare in funzione degli imperativi giovanili, divertirsi e limonare. Non è musica per divertirsi o per ballare, questa qui, non è musica per rimorchiare né per emozionarsi. Che sfiga, direte voi. Già, ma per l’appunto, la grande novità dell’opera di Lou Reed fu porsi come oggetto artistico e non come intrattenimento, e per di più come forma comunicativa intergenerazionale. Il che, diciamola tutta, è stato anche un ottimo alibi per calcare un palco, a volte dignitosamente e a volte meno, fino a settant’anni suonati.

È infatti bene sottolineare che pochi nella storia del rock hanno collezionato tanti capitomboli quanti Lou Reed – tra dischi mortiferi e un’infinità di esibizioni live raccapriccianti. La ragione è presto detta: nonostante un intuito poetico spesso sorprendente, il nostro brillava per cattivo gusto, vantava un ego smisurato ma al contempo era disposto alle più bieche marchette. In altre parole, gli piacevano da morire i soldi – cosa che mica ci imbarazza, per carità, ma che spiega la sua spiccata tendenza a rendersi ridicolo. Insomma, la stragrande maggioranza della roba che troverete su youtube è suonata da cani e cantata peggio. Può questo intaccare il suo buon nome? Nient’affatto, anzi. Come qualcun altro ha già spiegato, il rock non è mica una cosa seria, e nemmeno l’arte lo è, fortunatamente. L’asessuato Lou, brutto come la fame, con un’infausta chioma platinata e un tragico completo nero, attillatissimo, tutto preso ad ancheggiare seducente e ambiguo alla maniera di un David Bowie qualunque, rappresenta al meglio la nostra tragicomica condizione umana, pieni di buoni propositi ma troppo pigri, o troppo paraculo, per perseguirli davvero. Ergo, tutto bene, ma fate attenzione quando condividete certa robaccia con l’aria di chi la sa lunga.

Chi invece tenta oggi di attribuire al caro Lou la spaventevole etichetta di ‘poeta rock’, nel solco della sempreverde tradizione italiana di venerare i maledettissimi “contenuti”, è pregato di ragionarci un po’ su – e noi con lui. A quale concezione di “poesia” si riferisce questa gente qui? Sarà forse che, incapaci di apprezzare questioni musicali, si va alla ricerca di aspetti meramente verbali, della parola? Come detto fino alla nausea, la musica di Lou Reed ha incarnato le nevrosi urbane, il male-di-vivere di una società incapace di provare emozioni e assieme costantemente sovraeccitata. Se è conclamato che costituisse un rifiuto agli ideali comunitari della psichedelia californiana, è altrettanto vero che rifuggiva anche dalla canzone politica di Bob Dylan, dalle nostre parti decisamente più apprezzata della soffocante apatia velvettiana. Circola in questi giorni, reiterata dai flussi facebookiani, una citazione di Lou Reed: «Ho sempre creduto di avere qualcosa di importante da dire, e l’ho detta». Ma cosa aveva da dire, il buon Lou, e in che modo l’ha detta? Il punto qui è che, per quanto scrittore sopraffino, Lou Reed è stato in primo luogo un musicista rivoluzionario – un grande cantante, talvolta un grandissimo chitarrista, un compositore spesso accorto e ispirato. Allo stesso modo di qualsiasi altro musicista, la poesia per Lou Reed non sta nelle parole, ma dietro all’intreccio di musica e parole. Per quale ragione dovrebbe reggere l’etichetta di “poeta rock”? A mio avviso, la sua visione estetica può essere gioiosamente rintracciata in quel capolavoro che fu Songs For Drella, album del 1990 dedicato a Andy Warhol (per i pochi ignorantelli, Warhol fu produttore del primo album dei Velvet Underground ed esercitò un’influenza decisiva nella carriera di Lou Reed, il quale di contro lo ignorò in vita e non andò a trovarlo manco sul letto di morte, per poi pentirsi di fronte a qualche milione di spettatori paganti). La canzone è ‘Images’, e a parlare sarebbe Andy, o Lou, o chi volete: «If you’re looking for a deeper meaning, I’m as deep as this high ceiling». Insomma, cari miei amici ghiotti di contenuti, perché poeta e non pittore?

Ma basta così, non c’è poi tanto altro da dire. Se non che questo è il miglior pezzo della storia del rock, a mio avviso, e che dovreste ascoltarlo tutti:

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