RENZI, NON DOVEVI CHIAMARLO ITALICUM

il bureau - marco viviani - il pinguino di herzog

Il drammatico confronto ieri sera in direzione al Partito Democratico, che doveva votare il pacchetto di riforme proposte da Matteo Renzi, il neo segretario, ha mostrato tutta la natura infima della politica italiana, nevrotizzata e ipocrita, al pari dell’opinione pubblica. Forse Renzi non avrebbe dovuto mai chiamare italicum il modello di legge elettorale proporzionale uscito dal confronto con Scelta civica, NCD, Letta e Berlusconi (in quest’ordine, anche se naturamente tutti si sono concentrati solo sull’ultimo, al Nazareno, col tycoon di Forza Italia): già dal nome richiama troppo l’italica propensione a lamentarsi di tutto e a finire vittima dei propri feticci.

La serie di argomenti utilizzati in queste ultime 72 ore contro le proposte di Renzi è una straordinaria sequela di imbarazzanti arrampicate ideologiche: i vendoliani che sostenevano non avrebbe mai dovuto incontrare una persona pregiudicata opponendo al senso del realismo un’etica dei princìpi (scordandosi completamente che la responsabilità politica è l’argomento col quale hanno difeso il loro leader in occasione delle conversazioni telefoniche con la famiglia Riva, non proprio dei santarellini); i bersaniani che oltre ogni limite della decenza hanno rispolverato l’antiberlusconismo arroccato e persino l’importanza delle preferenze (cancellate dalla sinistra con ottime argomentazioni già anni fa); il movimento cinquestelle che definiva la legge elettorale proposta pregiudicatellum, nonostante l’unica proposta di legge elettorale M5S depositata alla Camera sia un proporzionale sul modello spagnolo, guardingo sulle preferenze perché «aumentano i costi della campagna elettorale, incrementano la concorrenza e anche la conflittualità intrapartitica, accrescono il ruolo delle lobbies, favoriscono i comportamenti eccentrici di singoli candidati dentro i partiti e, soprattutto in certi contesti, premiano comportamenti clientelari e persino attività corruttive» e che è diversa soltanto perché non prevede alcuna soglia di premio di  maggioranza dovendo accontentare l’esigenza del movimento di incoraggiare le larghe intese. Motore di frustrazione popolare, dunque tesoretto di voti per chi soffre del panico da discoteca.

Se ci fosse stato il doppio turno l’anno scorso, secondo questa legge proposta da Renzi, Bersani oggi sarebbe il presidente del Consiglio e ci sarebbero PD e SEL al governo, perché il doppio turno avrebbe assegnati i seggi non aggiudicati, un po’ dei voti del M5S sarebbero comunque andati contro Berlusconi (gli altri si sarebbero astenuti) e si sarebbe evitata la situazione incresciosa delle larghe intese. La cosa incredibile è che molti “bersaniani” e “vendoliani” criticano questa proposta. Non sanno guardare a un palmo dal loro naso.

Il doppio turno è sempre stato e sarà sempre amico delle coalizioni, soprattutto di centrosinistra (infatti è il marchio di fabbrica dei francesi). Dovesse passare ci lasceremmo alle spalle anni di ingovernabilità che sono costati socialmente ed economicamente come una guerra. Chi critica questa proposta di legge non sa di cosa parla, oppure lo sa benissimo ma lo fa lo stesso. Conviene praticamente a tutte e tre le forze politiche che contano qualcosa in Italia, com’è giusto: 35% minimo per avere un premio di maggioranza (nell’ultima tornata nessuno l’ha raggiunto), soglia di sbarramento medio-bassa per chi entra in coalizione (5%: nel 2013 nessun partitino di destra l’ha raggiunto), niente apparentamenti e in caso di <35% ballottaggio per i primi due – per non dare premi di maggioranza troppo elevati – dando di nuovo la parola agli elettori.

Quando sarà finita la sbornia delle critiche all’italiana, ci si renderà conto che è un miglioramento notevole. Non è perfetta, soprattutto nella piena rappresentatività e nella scelta autonoma degli elettori dei propri candidati, ma ogni modello di legge elettorale sconta queste imperfezioni e il proporzionale corretto, in particolare, è costretto per ragioni matematiche a considerare a livello nazionale i voti e a distribuirli secondo i collegi modificando un po’, a seconda dei risultati, la piena aderenza tra ciò che l’elettore ha siglato col suo voto e l’effettiva elezione del candidato suo rappresentante. Difetto rafforzato, pare, da una precisa richiesta di Alfano.

D’altra parte, di collegi uninominali e di maggioritario – che non avrebbe preferenze, non sarebbero necessarie – non si può più parlare dopo la sentenza della Corte e considerando l’attuale divisione tripolare dell’elettorato. Bisognava dare una  speranza concreta di governo senza l'”arroganza” del maggioritario in vigore dal 1993 al 2005 (che, non dimentichiamolo,  ha avuto il suo ruolo nella creazione del berlusconismo), dando per scontato che soltanto un pazzo potrebbe affidarsi al proporzionale 100% senza coalizioni né soglie-premio almeno ipotetiche e auspicabili. Tanto varrebbe, in questo caso, nominare Napolitano Re d’Italia e chiusa. E a meno che voi non campiate scrivendo articoli e libri contro Napolitano, il PD e le larghe intese, non vi conviene.

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