CAPOLAVORO

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di Matteo Pelliti

Lapis #15 (sul capolavorato)

Gridare al capolavoro fa parte del malcostume concettuale d’abusare dei superlativi? Se tutto è “capolavoro” – ogni ultimo film, ogni ultimo album, ogni ultimo romanzo in uscita… – nulla lo è più. Idrolitina. Il linguaggio che rende effervescente l’acqua ferma di prodotti mediocri. Ma la stessa espressione “gridare al capolavoro” mi pare contenere ormai qualcosa di rituale, di stanco, di automatico. Capolavoro è un sostantivo pesante che andrebbe usato con cautela, e solo in modo retrospettivo: valuto all’interno di un’ampia produzione il risultato “migliore”. In italiano il termine mantiene anche un significato secondario – opera che il lavoratore assunto in prova deve compiere alla fine del relativo periodo per dimostrare la propria capacità professionale: fare il c.; essere bocciato nel capolavoro – che rimanda all’etimologia medievale propria del termine: chef d’oeuvre, cioè il manufatto che “nella bottega di un maestro, l’apprendista aveva l’obbligo di realizzare per dimostrare la sua competenza e divenire quindi membro della corporazione. La buona riuscita della prova lo abilitava all’esercizio della professione come maestro a pieno titolo” (vedi qui). Quindi, in principio, il capolavoro lo si produceva a “inizio” carriera, come prova di abilità raggiunta. Oggi è ridotto ad espediente di marketing, uno strillo da fascetta promozionale che non si nega più quasi a nessuno.

Nel linguaggio dei media uso antifrastico e uso iperbolico del termine si fronteggiano, al 50 e 50 per cento delle occorrenze, direi. Capolavoro è diventata una parola al neon: s’accende come appariscente insegna luminosa sopra una merce che, di suo, non rilucerebbe. Al contrario, il capolavoro potrebbe automostrarsi, manifestarsi in sé, senza alcuna necessità d’essere definito tale (so che mi ricorderete i rifiuti editoriali più famosi di altrettanto famosi capolavori, ma ora, qui, mi interessano i contesti d’uso del termine oggi e non la ridefinizione storica del concetto). Non è necessario dire di alcune opere che sono capolavori, a meno che non si voglia usare la parola in forma antonomastica, o come descrizione definita dell’opera capace di identificarla univocamente (“il capolavoro di Alessandro Manzoni” per “I Promessi Sposi”). Oggi fare della propria vita un’opera d’arte non è più sufficiente: qualsiasi risultato che non aspiri al rango di “capolavoro” sarà ritenuto fallimentare. Se l’intelligenza è collettiva, e gli immaginari condivisi, s’impone che anche il capolavoro esca dalla dimensione individualistica e dalla sua unicità per diventare democratico e, soprattutto, collaborativo.

I capolavori hanno i minuti contati, diceva Flaiano, mentre, provocatoriamente, e non a caso, lo scrittore Luca Ricci ha usato il termine per designare questo collettivo reticolo di testualità e presenza che è lo “scrivere in rete”:  – Ogni tempo ha la sua arte e i suoi artisti. E forse oggi, il capolavoro – l’opera aperta di cui hanno vaneggiato più o meno tutti i geni letterari del novecento, questa sorta di Sacro Graal della reinvenzione delle forme – lo stiamo scrivendo proprio noi, qui sulla rete – (vedi qui).

Il capolavoro nell’epoca della sua riproducibilità cooperativa.

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