AUTOMI

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di Matteo Pelliti

Lapis #13  (contro le audioguide)

<Qui in particolare mi ero fermato per far vedere che se ci fossero macchine con organi e forma di scimmia o di qualche altro animale privo di ragione, non avremmo nessun mezzo per accorgerci che non sono in tutto uguali a questi animali; mentre se ce ne fossero di somiglianti ai nostri corpi e capaci di imitare le nostre azioni per quanto è di fatto possibile, ci resterebbero sempre due mezzi sicurissimi per riconoscere che, non per questo, sono uomini veri. In primo luogo, non potrebbero mai usare parole o altri segni combinandoli come facciamo noi per comunicare agli altri i nostri pensieri. Perché si può ben concepire che una macchina sia fatta in modo tale da proferire parole, e ne proferisca anzi in relazione a movimenti corporei che provochino qualche cambiamento nei suoi organi; che chieda, ad esempio, che cosa si vuole da lei se la si tocca in qualche punto, o se si tocca in un altro gridi che le si fa male e così via; ma non si può immaginare che possa combinarle in modi diversi per rispondere al senso di tutto quel che si dice in sua presenza, come possono fare gli uomini, anche i più ottusi. L’altro criterio è che quando pure facessero molte cose altrettanto bene o forse meglio di qualcuno di noi, fallirebbero inevitabilmente in altre, e si scoprirebbe così che agiscono non in quanto conoscono, ma soltanto per la disposizione degli organi.>
(René Descartes, Discorso sul Metodo, parte V)

Vi sarà forse capitata l’esperienza, cartesiana e straniante, di visitare una mostra dove la maggior parte, se non la totalità, dei visitatori vaga nelle sale dando forma a un piccolo esercito di automi. Avrete osservate che il loro vagare appare orientato da precise istruzioni che provengono da auricolari o cuffie. Piccole ricetrasmittenti, simili ai cellulari ciechi del recente passato, fissate alla cintura o scaldate tra le mani, come un rosario, forniscono i dettagli di ogni quadro, di ogni opera esposta. Le audioguide creano, di fatto, una dittatura della didascalia, della nota a piè di opera, un enciclopedismo portatile più antico di ogni forma presente di augmented reality. L’apparecchio inibisce la fruizione libera dello spazio espositivo, guida, linearmente, in modo ordinale, procedendo tra le opere esposte. La libertà casuale di sostare, perdersi in modo anticronologico, e la stessa libertà di “non capire” le opere esposte, viene coartata dalla voce che proviene dalle cuffiette.

I visitatori delle mostre, così ridotti alla schiavitù d’automi, macchine vaganti, somigliano ad invasati, in trance, di fatto posseduti dagli auricolari, ispirati nei movimenti da una voce interna che proviene da fuori, uguale per tutti. Separati sensorialmente dal resto del mondo, questi visitatori, se avvicinati – E’ permesso? Scusi? – non si scansano mai, poiché non avvertono la presenza umana dei colleghi di visita; isolati, anche quando sono in piccoli gruppi, sovvertono ogni principio della prossemica e, come in un negativo fotografico, trasformano in fantasma chiunque non partecipi della voce filoguidante. Non indossare le cuffie dell’audioguida in una sala dove tutti, ma proprio tutti, le indossano, significa vivere per qualche attimo l’esperienza del fantasma che visita il nottambulo. Ecco, l’impressione del sonnambulismo, seppur in un perdersi nel sogno delle arti, è quella che restituisce la visione del balletto non sincronizzato dei turisti dentro una mostra audioguidata.

Solo i bambini si ribellano a questa dittatura della didascalia audio: inforcate le cuffie vi si oppongono parlando a voce alta, mettendo e togliendosi le protesi, liberi di non ascoltare, resistenziali. Ogni realtà aumentata depaupera dalla coscienza dell’essere compresenti al prossimo. Il “prossimo” perde la sua prossimità proprio nella contemplazione dell’arte, ognuno isolato nella bolla audioenciclopedica, infarcito, distratto dalle informazioni possibili che si sovrappongono, quando non entrino in contrasto, con gli stimoli sensoriali che già il contatto con le opere d’arte genera e prevede. L’esperienza della mostra come “infarcimento” (per via auditiva, cocleare: vedere con le orecchie) è di natura ricattatoria e vagamente scolastica. Anche se nessuno ci interrogherà a fine percorso, quando verranno restituite le protesi conoscitive, radioline.

(pensato in data 5 gennaio 2014, visitando la mostra “Andy Warhol. Una storia americana”, Palazzo Blu, Pisa, fino al 2 febbraio 2014)

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