STUDIARE L’ITALIA A NEW YORK

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di Maddalena Vaglio Tanet

 

Nel 2010, subito dopo la laurea in lettere, ho deciso di fare domanda per un dottorato negli Stati Uniti. Le ragioni erano intellettuali e sentimentali. Tra le altre cose, avevo voglia di vivere fuori dall’Italia e di conoscere un nuovo sistema universitario, un altro modo di fare ricerca e una diversa tradizione intellettuale. Ho sempre pensato al dottorato come all’epilogo della mia formazione, non tanto come all’inizio di un percorso di lavoro accademico. Quello americano rappresentava in più l’occasione di trasferirmi in un paese per cui è difficile altrimenti ottenere un visto, con uno stipendio per almeno 5 anni e la possibilità di insegnare. Ho subito deciso di non propormi per le università più isolate, anche se prestigiose: avevo bisogno di un’esperienza culturale che comprendesse la ricerca e la vita universitaria, ma non soltanto. Teatri, librerie, musei, gallerie, una città da scoprire al di fuori del campus erano per me una priorità, così la scelta è ricaduta senza troppi dubbi sulla Columbia University di New York.

 

Il campus principale della Columbia è un ritaglio di isolati nel nord-ovest di Manhattan, tra Broadway e Amsterdam Avenue, la centoquattordicesima e la centoventesima strada. Rispetto alle dimensioni medie di un campus americano è molto piccolo, una specie di radura ricavata nella selva della città. Ci sono due enormi edifici in stile neoclassico che si fronteggiano ai due lati della via principale: l’iconica Low Library, ora sede di uffici, e la nuova Butler Library. È un luogo tranquillo, si va a piedi, le strade sono strette e curate, ci sono prati, fiori, siepi, alberi e perciò una moltitudine di scoiattoli, come in ogni angolo verde di New York. Nei frequenti discorsi su “meglio Columbia o NYU” (la New York University, un’altra grande università di Manhattan), prima di toccare la questione dell’impostazione scientifica si comincia spesso con: “Columbia ha un campus”, a cui segue: “Però NYU è Downtown”.

 

La questione del campus non è un dettaglio. In America quasi tutte le università hanno un campus, anche quelle urbane. A volte intorno a un grande campus isolato sorgono un mall (un centro commerciale) e una cittadina che prende il nome dall’università (qualcosa di improbabile in Europa). È importante che si sia un campus, un ambiente comune e protetto, perché la maggior parte degli studenti sono undergraduate (pre-laurea), arrivano a 17 o 18 anni per il college, alloggiano nei dormitori, vanno a lezione negli stessi posti e poi a mensa, in palestra o al workshop di cucina, di pittura o di danza, sviluppano uno spirito di squadra, intrecciano relazioni che saranno utili più avanti. Per le università i laboratori, le pubblicazioni, l’eccellenza nella ricerca, gli investimenti sui dottorati sono importanti, ma importanti sono pure gli studenti undergraduate, che pagano le tasse, spesso salatissime e a cui si rivolge la maggior parte dei corsi, anche quelli tenuti dai dottorandi.

 

I PhD students sono una specie ibrida, metà studenti e metà professori (per uno sguardo dall’interno sull’intera questione, si veda qui http://wheninacademia.tumblr.com/). Durante i primi due anni si seguono corsi e si ottiene un master, anche se già in possesso di una laurea specialistica. Dal secondo anno si insegna, un impegno parallelo che può essere gravoso, ma che quasi tutti i dottorandi amano (pur lamentandosi, me compresa) e che è essenziale per ottenere qualsiasi incarico accademico successivo, oltre a rappresentare un ottimo presupposto per trovare lavoro fuori dall’università. All’inizio del quarto anno di dottorato, in genere, si discute un progetto di tesi: a quel punto si diventa ufficialmente PhD candidate o, con amore tutto americano per le sigle, ABD (all but dissertation). Rispetto a un dottorato italiano, quindi, la vera e propria ricerca comincia tardi. Nella prima fase ci si continua a formare sotto la guida dei professori che poi probabilmente faranno parte della commissione di tesi. Sono gli stessi che avevano deciso l’ammissione: le persone che, a tornare indietro, avevano letto la tua domanda, l’application.

 

Fare application è un processo piuttosto lungo e tortuoso che dice molto sull’accademia americana. La selezione è trasparente e chi ha fatto studi in un posto non viene ammesso al dottorato nello stesso. Naturalmente, anche se non c’è protezionismo verso gli americani, i criteri sono pensati per chi abbia studiato in un’ottima università degli Stati Uniti, magari Ivy-League, e spesso si predilige una scommessa sicura (a sure bet, una persona con un profilo chiaro e idee chiare, che probabilmente finirà in tempo e quindi costerà meno al dipartimento), rispetto a candidati interessanti ma meno facilmente inquadrabili, più indecisi sulla direzione di ricerca o che stanno a cavallo tra discipline diverse (ad esempio uno studente di filosofia italiano potrebbe trovarsi molto più a suo agio in un dipartimento di scienze politiche, storia o letteratura comparata). Siccome la decisione sulle ammissioni viene presa a distanza, l’application deve funzionare come una presentazione efficace e offrire una descrizione esaustiva del candidato: i risultati degli esami TOEFL (di inglese) e GRE (di tutto un po’), CV, un progetto di ricerca, lettere a suffragio di due o tre professori, e quell’imbarazzante genere semi-letterario che viene chiamato personal statement oppure statement of purpose, in cui si racconta qualcosa di sé e di quello che si vuole fare, con un po’ di baldanza e buon entusiasmo.

 

Sul resto dell’esperienza è impossibile generalizzare senza distorcere. Io conosco bene la situazione dei dipartimenti di lingue e letterature straniere, di italiano, francese e tedesco soprattutto. Rispetto ai grandi dipartimenti di economia, legge o medicina, sono quasi sempre piccoli e poco finanziati, e cercano con fatica di elaborare un compromesso tra studi europei e studi americani, tra filologia e cultural studies, lettura ravvicinata dei testi e teoria letteraria, teorie letterarie e teorie letterarie. Per me è esattamente questo il punto di un dottorato in America, insieme al vantaggio di provenire da un altro sistema universitario: riconoscere pregi e limiti di entrambi, cercare di cogliere gli uni e arginare gli altri, fare della propria ricerca il risultato di questi tentativi.

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