IL MITO DELLA TRASPARENZA

mitologie_contemporanee

di Tommaso Matano

 

“La terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”

 

T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo

 

 

E’ il 1791 quando Jeremy Bentham progetta il Panopticon, un imponente edificio atto a sorvegliare, punire ed educare i cittadini. Un palazzo polifunzionale che è insieme un penitenziario e un manicomio, un ospedale e una scuola.

Il disegno è semplice: una struttura circolare con al centro una torre, occupata da un ispettore, e un cerchio di celle disposte intorno. Ogni cella è dotata di due finestre, una che affaccia verso l’esterno per far entrare la luce, e l’altra esposta verso l’interno, verso la torre centrale dove staziona il controllore, che può in qualunque momento guardare dentro tutte le celle.

Il guardiano, questo occhio che tutto osserva e sa, pone i prigionieri sotto controllo, li costringe alla pressione di una divinità onnisciente che nell’atto stesso di guardarli li disciplina.

Perfetta, inquietante condensazione del principio della trasparenza che ispira il pensiero politico illuminista, il Panopticon ci consegna un regime ottico che vede e fa vedere, squarciando il buio dell’ancien règime. Come osservava Foucault, il Panopticon pone il principio che il potere dev’essere visibile (è l’alta torre che troneggia al centro della prigione) e inverificabile (nessuno può sapere se è effettivamente sotto sorveglianza o meno). Di più, dalla meravigliosa struttura automatica del Panopticon il potere esce deindividualizzato. Non ha importanza chi sia il guardiano, non ha importanza nemmeno se effettivamente vi sia un guardiano. Lo scopo?

Rendere l’esercizio del governo più rapido, più leggero, più efficace.

La trasparenza –per antica metafora- diventa la condizione di possibilità della visibilità, cioè del sapere. 

Ma di quale tipo di sapere si tratta?

Nell’incontro tra il panoptismo e Orwell (i totalitarismi), la trasparenza che il legislatore pretende dai cittadini si evolve da tacito monitoraggio in invadente strumento di coercizione, tentativo di appropriazione tanto oltraggioso per la dignità degli individui da connotare il concetto di privacy positivamente, occultando il suo originario senso di privazione rispetto alla dimensione più appagante e totale della sfera pubblica.

Spinti a difendersi dal pericolo del Dio voyeur che tutto spia, gli individui oscurano i vetri delle proprie abitazioni, ritagliano la libera e inviolabile sacralità dello spazio privato, e si rivolgono al Panopticon con una pretesa: controllarlo.

 

Come?

 

L’arrivo della tecnica e dei nuovi media incide radicalmente sul concetto di trasparenza, operando in due sensi.

Da un lato, lo sguardo onnisciente del custode che tutto vede diventa una pluralità sterminata di occhi, uno spettacolo pirotecnico di smartphone e tablet in grado di riprodurre e controllare la realtà sempre e ovunque in tempo reale.

Dall’altro, la sorveglianza, ovvero l’osservazione dall’alto, si trasforma in una sorta di ‘subveglianza’ (http://en.wikipedia.org/wiki/Sousveillance) un Panopticon rovesciato in cui ogni detenuto, al riparo nella propria cella, nascosto dagli sguardi altrui, fissa insistentemente il custode.

A colpi di leaks e di dirette streaming la massa pretende di vedere, cioè sapere, presa dalla mania di un controllo che ha dimenticato il proprio senso originario.

Inorridiamo di fronte allo scandalo del Datagate, alla possibilità stessa che lo Stato sconfini oltre la soglia della nostra casa, che il Noi faccia violenza all’Io, ma permettiamo con disinvoltura che Internet divori la nostra identità gettandogli  in pasto una quantità incontrollabile di informazioni. Se si tratta di essere controllati da qualcosa cui non riconosciamo il valore di struttura, non ci preoccupiamo. Quando si parla di istituzioni, lo scandalo è assicurato.

Eppure l’incontro tra le due sfere del pubblico e del privato -e tra le due etiche che le caratterizzano-, dà luogo ad un cortocircuito, come dimostra il caso delle intercettazioni telefoniche. Si possono rendere pubbliche le questioni private dei personaggi pubblici? Come ci si comporta in questi casi? Quale linea prevale? Quale tra le due istanze fortissime che animano la nostra società vince, quella della privacy o quella della trasparenza?

Noi pretendiamo di rimanere nascosti, ma il potere deve essere controllato. Dobbiamo vedere per sapere. Ed ecco la domanda cui non abbiamo ancora risposto: di che tipo di sapere si tratta? Cosa possiamo davvero sapere? Possiamo realmente analizzare le informazioni di Wikileaks o serve un organo di stampa che le traduca e le pubblicizzi? Ma la stampa non è già sempre una struttura? Possiamo fidarci?

 

La società aperta come una scatoletta di tonno e i suoi nemici cominciano ad avvilupparsi in una serie di contraddizioni.

 

In una delle scene più inquietanti del vivere comune degli ultimi anni, l’ex incaricato premier Pierluigi Bersani incontra i capigruppo del Movimento Cinque Stelle per sondare la possibilità di formare un governo. M5S ha preteso la diretta streaming per le consultazioni, ed è sotto lo sguardo vigile del Panopticon (il Popolo della Rete?) che il dialogo va in scena. In un passaggio particolarmente drammatico, Roberta Lombardi si rivolge a Bersani dicendogli “Mi sembrava di stare a sentire una puntata di Ballarò”.

Ecco, se possibile il mito della trasparenza è tutto qui, in questo semplice passaggio. Un’ affermazione come “Mi sembrava di stare a Ballarò” e il tono sprezzante con cui viene pronunciata denuncia l’esigenza di dover render conto al pubblico. Una frase del genere ha senso solo su un palcoscenico, in un salotto televisivo, non dentro una stanza chiusa in cui si prendono decisioni. In altre parole, quando la Lombardi dice a Bersani che le sembra di stare a Ballarò, è perché lei crede davvero di stare a Ballarò, è l’occhio vigile della telecamera a ingannarla.

La diretta non può entrare nei luoghi in cui si governa perché l’esecuzione di quel potere richiede la libertà dallo sguardo. Il post-panoptismo (direbbe il sempiterno Bauman) non ha imparato la cosa più essenziale dal panoptismo, cioè che l’obiettivo della trasparenza è la rapidità e il successo dell’esecuzione. Se la struttura della trasparenza, che ora va dal basso verso l’alto, è rovesciata, allora anche l’effetto sarà rovesciato: il totale controllo del pubblico sulla cosa pubblica immobilizza il sistema, l’autoanalisi paralizza il Leviatano.

Ciò non significa che la trasparenza non sia un valore conseguibile o che il potere possa reclamare la sua intoccabilità per il semplice fatto di essere il potere. Il punto che si vuole evidenziare è che la trasparenza non può essere qualcosa che si ottiene attraverso la dissoluzione delle mediazioni. L’immagine che la diretta streaming ci offre, rimane inintelligibile e anzi falsata finché non lavoriamo con essa. Per una sorta di principio di indeterminazione, se puntiamo lo sguardo della telecamera sulle consultazioni politiche, non otterremo mai la scena di una vera consultazione politica.

Un’effettiva forma di controllo sul potere da parte dei cittadini non dovrebbe piuttosto essere un gioco articolato di interazioni con altri soggetti di potere e di rappresentanza -i corpi intermedi-, un processo mediato di reciproca sorveglianza e confronto tra i vari attori della società? Ma questo non è già (in linea teorica) il funzionamento delle istituzioni democratiche?

La trasparenza non è un modo di rapportarsi al mondo conseguibile semplicemente abolendo i filtri che intercedono tra il nostro occhio e la realtà: non basta chiedere alle cose di rivelarsi nella loro cristallina evidenza.

Perché quello dell’immediatezza è un altro mito, il prossimo.

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