DEVASTANTE

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di Matteo Pelliti

Lapis #17 (sul “devasto”)

Perché a “devastante” non è ancora toccata in sorte la gogna che si riservò ad “attimino”? Quando accadde che era ancora slang, gergo, boutade e, un attimo dopo, participio presente buono per ogni cosa, da un lutto a una giornata faticosa, da un amore finito ai tornado nelle Filippine? Ecco, in questo momento sto scrivendo un testo per il Giorno della Memoria, per una celebrazione pubblica. E se scrivessi che la Shoah è stata devastante? All’orecchio potrebbe suonare male, temo, poiché il depotenziamento delle parole progressivamente le svuota di senso e, attraverso certi usi, le porta in altri “ambiti” semantici. Così ora nessuno scriverebbe che la Shoah è stata devastante, mentre tutti – o quasi – sarebbero disposti a dire che l’ultima serata in birreria con gli amici lo è stata. “Devastante” contiene un deserto, la vastità di un nulla che la de-vastazione, appunto, porta con sé. Ma questo deserto è quello del nostro lessico, nel contrarsi del suo spettro espressivo. La vita psichica, la vita emotiva, trova sempre più difficoltosa espressione: allora siamo tutti devastati. Dalla fatica, dal lavoro, quando c’è e quando manca, dalla fiscalità, dal traffico, dai colleghi, dai parenti, dagli impegni, dalle scadenze, dalle delusioni, amorose e non. E’ un problema di scala, di grado. Con che cosa misureremo tutte queste nostre quotidiane devastazioni? Chi sarà il nostro Richter, il nostro Mercalli? Misureremo la magnitudo della devastante serata in birreria con il numero di pastiglie prese contro il mal di testa, con il tempo impiegato a riprendere conoscenza al mattino? Qual è l’unità di misura della “devastazione” della lingua? E quella per le devastazioni cui ci riferiamo quando usiamo “devastante”? Forse il costo orario della psicoterapia? Va bene, devastati, ma: quanto? Ecco un primo indizio, una tesi, sul perché si diffonda quest’uso: l‘equiparazione dell’umano a cosa, la stima del danno come sempre quantificabile, numerabile.

Oppure interiezione, di risposta, di rimbazo: “Devastante!” Ovviamente, sempre più disponibile l’uso figurato del termine, come iperbole positiva, quindi “devastante” per “massimamente soddisfacente”, “eccezionale, formidabile, straordinario”. (“Come è l’ultimo Gran Theft Auto?” “Devastante!”. Per non parlare dell’espressione “bellezza devastante”). Vado in cerca di questi usi  fuori dai cassonetti dell’organico della lingua, e trovo la recensione di un residence a Palma di Majorca:  “Perfetto per il devasto“. Ecco il primo figlio degenere di “devastazione”, il “devasto”, cioé “danno psicofisico a cose, amici o, più spesso a se stessi e ai propri neuroni, a causa del degenero della festa” (vedi qui). Gerghi, idioletti, mode passeggere (a volte tratte da tormentoni televisivi, oggi da hashtag episodici) accompagnano il linguaggio comune, e certamente lo rendono mobile, vivo. Devastante ha, per me, però, tracimato. L’ esondazione di senso di “devastante” ha fatto sì che non sia più percepito come modo piatto e semplificatorio quando è usato “fuori contesto”, cioè: fuori scala. Una grave malattia può essere devastante, un terremoto, un’epidemia, un lutto. Nella morra cinese degli usi correnti l’uso figurato ha vinto sull’uso proprio, l’uso iperbolico su quello figurato. Vale per “devastante” come per altre parole (geniale, mitico, capolavoro…etc.). Se l’iperbole è il pesce grande che mangia il pesce piccolo, la biodiversità lessicale essica al sole delle nostre frasi fatte. Chi lo denuncia, chi pratica questa forma di ambientalismo, di ecologia delle parole, viene visto come un purista, quando non come un parruccone. Eppure, è ancora possibile praticare una lingua che sia personale, che non si arrenda alla devastante pigrizia di chiamare “devastazione” ogni piccolo inciampo della quotidianità?

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