
di Matteo Pelliti
Lapis #22 (sul tempo che passa e su quello che non)
“Gli orologi non vanno d’accordo, quello interiore corre a precipizio in un modo diabolico o demoniaco o in ogni caso disumano, mentre quello esterno segue faticosamente il solito ritmo. Che altro può accadere se non che i due diversi mondi si dividano?”
(Franz Kafka, Diari)
Nell’espressione inglese “time-lapse” , oggi molto usata in riferimento alla fotografia time-lapse, si sente ancora bene il “lasso”, il lapsus latino. Il tempo che rallenta, che cade, scivola, e viene ridotto ad un diverso passo di percettibilità cosciente. Allora il padre fotografa i figli e ne filma la crescita in time-lapse. Così, sul web, abbondano i tramonti albeggianti, la circolazione arteriosa del traffico nelle metropoli, le strutture in costruzione che fioriscono come piante. Il time-lapse elimina i momenti di passaggio, l’infraordinario, l’ovvio invisibile che ci sta sotto gli occhi e che impedisce di cogliere i cambiamenti e gli anelli di congiunzione tra uno stato e l’altro. E per questo ci regala sempre diversi Ooooh! di meraviglia. Recuperando per “lasso” il significato dantesto di “stanco”, tradurrei time-lapse come “tempostanco”.
Il tempostanco è il nostro tempo interiore sottoposto all’accelerazione del tempo dei media (sociali e non). Ogni genitore ha un time-lapse dei figli inconscio, io credo. E l’inconscio, poi, conserva forse di sé un time-lapse fotografico dei propri cambiamenti nel tempo. Il tempostanco accelera (fotogrammi) per farci rallentare (e percepire i cambiamenti). Oggi abbiamo un terzo orologio rispetto ai due tempi “kafkiani”, interno-esterno, contrapposti: il tempo della permanenza in rete, dello “stare” connessi. Stare connessi è, per molti, ormai consustanziale ad essere. E il tempostanco di questo esserci è statico: la resa fotografica in time-lapse del tempo di rete ci mostrebbe il rapporto statico, immobile, tra noi e uno schermo, noi e il device che utilizziamo.
Per questo guardare lo scorrere accelerato delle immagini della volta celeste, del traffico, dei fiori che sbocciano, dei figli che crescono ci riempie così tanto di meraviglia e ci consola: riafferriamo a livello cosciente quel che non possiamo cogliere percettivamente e che, soprattutto, temiamo di non vivere più davvero. Zippiamo il tempo nel tempo zippato del nostro stare in rete, che passa velocissimo.