LA SIRIA E MLK: CAMBIARE IL MONDO A PAROLE

MLK

di Paolo Gervasi

Dopo giorni di manovre diplomatiche sembra ormai imminente, nonostante le incertezze residue, un intervento militare internazionale in Siria, finalizzato a stroncare la feroce repressione che il regime di Assad sta infliggendo ai dissidenti siriani. Nonostante la complessità della situazione geopolitica e la delicatezza degli equilibri in gioco, intorno all’opportunità di un intervento si è sviluppata una discussione piuttosto stereotipata, debolmente movimentata dalla danza dei pro e dei contro, e intorbidata come sempre dalla difficoltà di reperire informazioni certe, e dal fuoco incrociato delle mistificazioni operate dalle opposte propagande.

Tra gli interventisti prevale, come è naturale, l’imperativo umanitario: fermare il massacro. È un argomento ragionevole, seppure sabotato dal discredito che si è depositato sulle “guerre giuste” dopo decenni di interventi militari legittimati dalla giustificazione umanitaria, risolti in disastrosi fallimenti, e spesso fondati su “prove” poi rivelatesi completamente inesistenti (per altro, sempre le stesse, come in una sceneggiatura svogliata). L’evidenza della prova: un bel tema, in questa nostra epoca di indecidibilità conoscitiva, capire in che modo la retorica della prova ci avvince e ci convince, o almeno è ritenuta dai governanti elemento necessario e sufficiente a giustificare pressoché ogni decisione.

Qui non interessa in ogni caso una discussione sulla legittimità dell’intervento militare: non ho le competenze necessarie per fare valutazioni che aggiungano qualcosa alla contrapposizione di idee e supposizioni. Diffido sempre della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, diffido delle armi che esportano pace e democrazia, diffido del modo in cui le potenze occidentali gestiscono gli equilibri internazionali, diffido delle asimmetrie con le quali si valutano le violenze altrui, diffido supremamente della retorica dell’intervento umanitario. Ma non sono un geopolitologo, e non voglio improvvisarmi tale, e confesso di non essere in grado, in mancanza di altri elementi, di andare oltre questa diffidenza istintiva.

Quello che mi interessa qui è analizzare una certa modalità discorsiva degli interventisti. A fianco della convinzione umanitaria, come per sostenerne una presentita debolezza, gli interventisti ostentano un certo disprezzo per le posizioni contrarie, contrapponendo con malcelato senso di superiorità il loro concreto, machiavellico pragmatismo alle illusioni ingenue di chi si dice “contro la guerra”, quando non, orrore, “pacifista”. È difficile negare l’ingenuità e l’improvvisazione di certe argomentazioni del pacifismo, spesso impastate di semplificazioni buoniste, quando non contaminate dalle più fantascientifiche declinazioni della dietrologia e del complottismo. Eppure impressiona la violenza e l’aggressività con la quale gli interventisti insistono a relegare le ragioni degli scettici nel campo dell’utopismo parolaio, delle lamentazioni da anime belle, dei vuoti “discorsi” ai quali si contrappone, inesorabile e schiacciante, il principio di realtà, le esigenze ineludibili della “realpolitik”.

Ora, tra gli interventisti, soprattutto in questi tempi di larghe intese e disorientamento politico, non ci sono soltanto i falchi di ogni latitudine, i militaristi assetati di sangue, i fanatici del Patto Atlantico, i nostalgici di tutti i fascismi che si eccitano al sollevarsi fallico dei caccia. Tra gli interventisti ci sono anche dei “sinceri democratici”, come si dice: e sia detto senza scherno. Sinceri democratici che credono sinceramente nella solidarietà tra i popoli e nella necessità di abbattere un regime totalitario e sanguinoso (tralasciando che con quel regime i paesi democratici hanno intrattenuto rapporti imbarazzanti, ma questo è un problema complesso e davvero sarebbe da anime belle negare che le relazioni cambiano e le alleanze sono variabili, e gli alleati possono essere delegittimati dalle loro azioni). Tuttavia anche i democratici, nonostante la serietà delle loro argomentazioni, tendono a derubricare, e spesso con inconsueta aggressività, i ragionamenti degli oppositori a pacifismo chiacchierone, a vuota retorica sentimentale.

Già, la retorica: il caso ha voluto che la settimana dei venti di guerra coincidesse con il cinquantenario del celeberrimo discorso di Washington di Martin Luther King. I have a dream: io ho un sogno. Un vero e proprio spiritual cantato dal leader afroamericano, un discorso che ha fatto convergere la tradizione retorica occidentale con il patrimonio orale della cultura nera, e con la sua efficacia performativa ha segnato un punto di non ritorno nella lotta per i diritti e per l’emancipazione di tutte le minoranze. Un discorso che tutti, interventisti e pacifisti, hanno riascoltato e “condiviso” con commozione, ipnotizzati dall’andamento travolgente dell’argomentazione, dalle scansioni musicali della metrica e del ritmo, dalla forza visionaria delle metafore, dall’intonazione e dal colore di una voce capace di risuonare, di mettersi in risonanza con la mente e il corpo degli ascoltatori.

Un’analisi dettagliata del discorso di Washington tuttavia, dei suoi “contenuti” e del suo tessuto argomentativo, rischierebbe di non superare il severo giudizio di chi applica alla politica le ragioni inflessibili di un cinico pragmatismo. Cosa c’è di pragmatico nel discorso di MLK? Qual è il programma politico, la proposta legislativa, la valutazione concreta dei rapporti di forza? Quanta parte ha l’utopia, la forza trascinante delle immagini? È più forte la capacità razionale di persuasione o l’empatia emotiva prodotta dalla voce, dalla sua energia performativa?

È un’efficacia puramente retorica a fondare la potenza con cui il discorso ha modificato per sempre l’immaginario collettivo. MLK ha combattuto, e ha vinto, la discriminazione razziale “a parole”. L’espressione che viene comunemente utilizzata in senso di discredito qui si rovescia nell’affermazione dell’efficacia della parola come “atto”, come fatto concreto che si conficca nel reale e lo modifica. Le parole di MLK hanno, di fatto, cambiato il mondo molto più di tanti bombardamenti e azioni pragmatiche e visioni strategiche e petizioni di realismo e ciniche constatazioni di inesorabilità.

La potenza dell’immaginario, le parole, l’organizzazione retorica dei pensieri e dei concetti, hanno la forza di plasmare, nel bene nel male, la nostra esistenza. Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i discorsi che ci parlano: sono le retoriche, molto di più che le istituzioni e gli eserciti, a dare significato alla nostra esperienza, a progettare lo spazio del nostro quotidiano, a modellare la forma della nostra mente. A predeterminare il senso delle scelte, l’orientamento delle azioni, il segno delle convinzioni.

Ho lavorato con un editore, che mi ha insegnato non solo la potenza delle parole, ma i cataclismi nascosti nelle virgole, gli abissi custoditi dagli spazi bianchi. Un giorno, mentre ero con lui, prigioniero anche io come tutti del senso comune e delle sue trappole linguistiche, mi sono lasciato sfuggire una frase: “sì, il tal dei tali è molto attivo, almeno a parole”. Era una frase due volte stupida, primo perché era una frase fatta, secondo perché pronunciata mentre eravamo lì a lavorare con le parole, dentro le parole, ad affidare alle parole tutte le nostre energie di trasformazione del reale.“Perché, forse abbiamo a disposizione altri strumenti, oltre alle parole?”, rispose l’editore facendomi franare addosso tutta la mia stupidità. Ecco, lo capisco sempre meglio: non abbiamo davvero nient’altro. In un momento in cui sedicenti “uomini del fare” riducono ogni ragionamento a “chiacchiera” che ostacola l’incedere del progresso, abbiamo invece un disperato bisogno di parole che possano portarci oltre il deserto di immaginazione nel quale ci siamo arenati, e sul quale continuiamo a far piovere l’ottusità delle nostre bombe.

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