In fiamme per un Tibet libero

di Elisabetta Terigi

In Tibet il sogno di vedere una patria libera spinge uomini e donne a darsi fuoco in luoghi pubblici. Dal febbraio del 2009, sono state ventisei le persone che hanno scelto di protestare contro il governo cinese facendosi divorare dalle fiamme. Ventuno uomini e cinque donne, dodici  i monaci e due le suore, così si legge sul sito International Campaign for Tibet. Obiettivo: ribellarsi alla legge di Pechino che regna in regioni popolate da tibetani. Dei ventisei almeno diciassette hanno perso la vita. A suicidarsi per protesta non sono solo monaci tibetani, ma anche donne e studenti.

Un eroismo tinto di rosso. Come l’amore per il proprio paese che anima soprattutto i più giovani. E come il sangue del loro sacrificio. Il Dalai Lama, come riporta l’agenzia stampa La Presse, ha elogiato il coraggio delle persone che si sono date fuoco e ha attribuito la responsabilità per questi incidenti al “genocidio culturale” portato avanti dalla Cina in Tibet. Ma il leader spirituale dei tibetani non incoraggia nessuno a compiere questo gesto estremo, anche perché tale tipo di azioni potrebbe invitare Pechino ad aumentare le repressioni.

In tre giorni tre torce umane. Due donne ed un uomo, queste le ultime vittime di marzo. Tsering Kyi era una studentessa di 20 anni  di Nyima (Contea di Machu). La ragazza si è data fuoco il tre di questo mese al mercato della sua città. I venditori cinesi presenti alla scena hanno gettato delle pietre sul corpo della giovane che stava bruciando. Questa è la testimonianza di chi ha visto la scena, lo si legge su Radio Free Asia, cooperativa privata e no profit con sede negli Stati Uniti che diffonde notizie in nove lingue asiatiche. Domenica quattro è stata Rinchen, donna di 33 anni, vedova e madre di quattro figli a scegliere di morire nello stesso modo. Lo ha fatto vicino al cancello del monastero Kirti, nella contea di Ngaba. Lunedì cinque è stato Dorojee a sacrificarsi per il suo Tibet.

La vicenda di Dorojee. L’ultima immolazione è stata nella città di Chara, nella provincia sud-occidentale cinese del Sichuan, dove vive una folta comunità di origini tibetane (sempre nella contea di Ngaba). Il giovane ha gridato slogan contro il governo, si è fermato vicino a un ponte, qui si è cosparso di liquido infiammabile e si è dato fuoco. Mentre era ormai divorato dalle fiamme, si è diretto verso un edificio pubblico adiacente, finché non è crollato a terra. Sono le notizie riportate da FreeTibet.org, la fondazione nata nel 1987 che difende i diritti del popolo tibetano. Queste morti, si legge sempre sul sito per il Tibet libero, mettono in luce una situazione drammatica. Il direttore del gruppo Free Tibet di base a Londra, ha dichiarato: «La terza immolazione evidenzia che i tibetani non smetteranno di protestare finché i loro appelli alla libertà non saranno ascoltati».

La lista completa delle vittime dell’ultimo anno si trova sul sito Free Tibet.org. Sono nomi esotici, difficili da pronunciare, impossibili da ricordare, che però nascondono storie personali, fatte di sofferenze e d’idealismo. Un occidentale, che poco conosce le vicende di questo popolo, pensa subito al giovane cinese che da solo e senza armi si mise davanti ad una colonna di carri armati in piazza Tienanmen a Pechino. Era il 5 giugno del 1989. Quell’eroe della fine della guerra fredda non ha mai avuto un nome, è passato alla storia come il rivoltoso sconosciuto, ma nel 1998 fu inserito dalla rivista Time tra le persone che più hanno influenzato il XX secolo.

A pensarci bene, il ribelle di ieri e quello di oggi qualcosa in comune ce l’hanno. Entrambi offrono il proprio doloroso sacrificio a un’ideale di libertà.

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