Un conflitto raccontato da un parte e dall'altra del

di Gaia Farina

Tornata dalla “gita” a Gerusalemme spiegare ai bambini di Betlemme che un israeliano poteva essere “buono” era stata un’impresa. Vivevano, i bambini, dietro un muro alto otto metri, in campi provvisori che ospitavano le loro famiglie ormai da 60 anni. Avevano tutti, o quasi, un parente o un vicino ucciso o arrestato dagli israeliani; a nessuno era consentito, se non dopo un lungo iter di richieste e autorizzazioni, attraversare i confini della propria città. Dai piani alti delle case, fra tappeti, materassi e il canto del muezzin, però, potevano vedere al di là del muro: città, strade, ulivi, palme, acqua, centri commerciali.

Attraversare il check point era stato per me, italiana, assai faticoso: lunghi canali contornati da alte reti elettrificate, percorsi obbligati. Guardie armate controllano i documenti due, tre volte nel giro di pochi metri e tanta, tanta gente in fila. Molte persone per lavorare a Gerusalemme trascorrono diverse ore nel tunnel, ogni giorno. Era stato altrettanto difficile ambientarsi al di là del muro, il cambio di prospettiva non garantiva maggiore libertà: sui bus di linea la paura di un attacco terroristico era palpabile. Persone armate, ovunque, rendevano la vita simile a uno stato d’assedio. Nel frattempo, attorno a me, scorreva la bellissima Gerusalemme.

In centro avevo incontrato i Refusnik, giovani che rifiutano di arruolarsi nell’esercito israeliano. Rischiano il carcere per la loro scelta, ma organizzano con cadenza regolare manifestazioni di protesta contro l’occupazione. Dopo 10 giorni in Palestina, dopo tante immagini di povertà, repressione, morte, arresti e soprusi, perfino a me sembrava impossibile che ci fossero, aldilà del muro, persone che combattevano per la pace. Mi sconvolgeva più di ogni cosa la loro premessa: “La gente, qui a Gerusalemme, non sa del muro, non lo ha mai visto o non lo vuole vedere. Il muro è nascosto da colline verdi che ne impediscono ai più la vista, l’interrogarsi su cosa ci sia al di là”.

Dalla mia visita in Palestina sono trascorsi sette anni di continue lotte e tregue limitate nel tempo. Anni in cui Gaza è divenuta sempre più isolata dalla Cisgiordania. La striscia, un lembo di terra di 360 Km quadrati in cui sono rinchiuse più di un milione e mezzo di persone, è il luogo da cui partono i razzi diretti alle città israeliane. Sotto il controllo di Hamas dal 2007, è il terreno di operazioni militari frequenti. I raid aerei sulla striscia di Gaza sono motivati dall’esercito israeliano con la necessità di colpire Hamas, riportare la pace nella zona e mettere fine al lancio di razzi Quassam. Queste le motivazioni tanto di “Piombo Fuso”, nel 2008, quanto di “Colonna di nuvola”, interrotta dalla tregua del 21 Novembre 2012. La sproporzione delle forze in campo è nei numeri. “Piombo fuso” durò poco meno di un mese, dal 27 dicembre 2008 al 18 Gennaio 2009. Negli attacchi sono morti circa 1400 civili palestinesi (secondo le Nazioni Unite). Hamas dal 2001 coi razzi Quassam sulle città a sud di Israele ha provocato in otto anni 15 morti.

A distanza di quattro anni il lancio l’operazione “Colonna di nuvola” ha inizio con l’uccisione “mirata” di uno dei capi militari di Hamas, Ahmed al-Jabari, il 14 novembre. Dalla notte del 14 i raid aerei israeliani si sono susseguiti con frequenza su obiettivi militari, politici e civili. Di contro è proseguito il lancio di razzi verso il sud di Israele, nella maggior parte dei casi intercettati dal sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome.

Sulla scorta delle proteste dell’opinione pubblica internazionale la strategia dell’esercito israeliano negli anni è cambiata. Nel 2008, durante l’operazione “Piombo fuso”, le Forze di difesa israeliane presero di mira fin dal primo giorno dei luoghi affollati. Le immagini cruente dei civili massacrati, però, fecero il giro del mondo, scatenando proteste e reazioni internazionali (in rari casi politiche).  Dall’inizio di “Colonna di nuvola”, invece, si è cercato di evitare che il numero delle vittime civili fosse troppo elevato. Israele ha invitato i civili a lasciare le case nei pressi dei rifugi di Hamas e, soprattutto, ha diffuso tramite il suo canale youtube il video dell’operazione.

Nonostante questi accorgimenti, militari e mediatici, le vittime civili  sono state oltre 150.  Molti i bambini.

Tralasciando le considerazioni sulla necessità di un intervento internazionale per fermare definitivamente il conflitto, sono due le frasi che riecheggiano nella mia testa: sarà sempre più difficile spiegare a un bambino palestinese che gli israeliani sono anche buoni; sarà sempre più difficile spiegargli che, al di là del fondamentalismo, c’è un’alternativa.

Gaia Farina è stata in Palestina nel luglio del 2005 con un campo di lavoro dell’Arci basato a Betlemme e ospitato dal Centro Italiano di informazione turistica. Il programma prevedeva la realizzazione di interviste video alla popolazione sui media arabi e internazionali visti con gli occhi dei palestinesi. I ragazzi del posto realizzavano le interviste assieme ai volontari e li accompagnavano in città e nei campi per i rifugiati. I volontari, in cambio, mettevano a disposizione le loro conoscenze informatiche e video-fotografiche.

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