il bureua - note dolenti - episodio 3

di Bobi Raspati

Cari affezionatissimi lettori di Note dolenti, mentre butto giù queste righe vi immagino ebbri di sole e di festività pasquali. Avete fatto il fuoco? Avete rischiato l’osso del collo nei verdi prati della maleodorante campagna natia? Avete acchiappato il fresbee fra quelle zampacce di cui la natura v’ha beffardamente provvisti? Io no, niente di tutto questo. Il perché è presto detto: pur di rispettare l’impegno pattuito con voi, miei adorati lettori, ho voltato le spalle alle gioie della primavera. Corda e cordoni, mi sono legato stretto alla poltrona e sparato svariati decibel sul grugno. Emergo solo ora, e solo per voi, dal fondo limaccioso dell’indie internazionale. La pesca è stata quel che è. Tre dischi passatisti, ma finalmente distanti dalla melassa ideologica del revival chillwave e psichedelico. Niente di che. Comunque, quel che vi meritate.

Spray Paint – Spray Paint [S-S Records, 2013]

Trentacinque anni or sono, una compilation curata dal prode Brian Eno fotografava i canoni newyorkesi della no wave: chitarre scordate, tamburoni tonfi, scampanellii, clangori e dissonanze. Idee cucinate da gente come DNA, Mars e Teenage Jesus & the Jerks (gente con carriere importati davanti, come Arto Lindsay, Ikue Mori e Lydia Lunch), poi ruminate da Sonic Youth e dal noise rock tutto. L’esordio dei texani Spray Paint, un trio con due chitarre e niente basso, raccoglie l’eredità di quel suono e registra alla bell’e meglio sedici tracce brevissime e livide. Cinquecento copie in vinile, con copertina unica fatta con lo spray, e il solito digital download a pochi dollari: accattatevillo.

Banque Allemande – Willst du Chinese sein musst du die ekligen Sachen essen [S-S Records, 2013]

Ancora un trio (stavolta il convenzionale basso-chitarra-batteria), ancora una produzione dell’oltranzista etichetta S-S. Fedeli al nome che portano, i berlinesi Banque Allemande fanno una musica austera e meschina. Se il precedente (e migliore) Eins, Zwei era composto soprattutto di pezzi brevi e veloci, qui le tracce sono soltanto sei – gli accordi suonati ancora meno. E sono lunghissime tirate punk, spesso martellate in rapidi 2/2, come se i Big Black suonassero krautrock (in questo senso sono esemplari i dieci minuti dell’iniziale ‘Suchmaschine‘). Dovreste sapere, miei cari lettori, che questi qui sono talmente underground e talmente mattacchioni che facevano concerti dentro i vagoni della metropolitana: il loro disco costa pochi eurini, in vinile o in download, e pur non perfetto è sempre meglio di quello schifo che ascoltate voi.

Makthaverskan – Makthaverskan II [Luxury, 2013]

Siamo franchi: è assai improbabile che questo quartetto svedese dal nome impronunciabile raccolga i successi che merita. Il loro indirizzo estetico è piuttosto evidente: post-punk riverberatissimo e ultramelodico con cassa dritta e basso a ruota, a metà tra i New Order e Blondie. La cantante bercia un paio di linee vocali per pezzo, e illumina a giorno la tetraggine esistenzialista del pop dei primi anni ’80. Tutti i pezzi sono tirati e intensi  – sebbene non vantino lo stesso peso specifico, purtroppo, e suonino tuttavia piuttosto simili. I Makthaverskan, al contrario di tanti altri retromaniaci di questi anni sconfortanti, hanno un sacco di entusiasmo e sembra che si divertano di cuore a suonare la musica che amano. Meno furbi dei The Drums e meno capaci dei Beach Fossils, pagano pegno di una povertà miserevole e di una produzione sciagurata: che cambino nome, e vediamo un po’. Il disco si ascolta nella sua interezza via bandcamp (e trovate anche il suo più cupo e sguaiato predecessore, a dire il vero bruttarello), via computer o via telefono.

 

Commenti

commenti

0 Comments

Leave a reply

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>