Capaci

di Marco Viviani

Il 23 maggio del 1992 avevo 17 anni e la passione politica incendiata da Tangentopoli. Nessun altro evento se non l’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie, della scorta, avrebbe potuto chiarire meglio a quella generazione come la mafia intendesse sé stessa come interlocutrice non negoziabile dei partiti. Quell’attentato era la dimostrazione perfetta delle conseguenze della crisi della Prima Repubblica sulla pluridecennale convivenza strutturale Stato-mafia.

La cupola andò in fibrillazione e i falchi approfittarono del vuoto per togliere di mezzo i servitori più bravi dello Stato, ma era il messaggio isterico di un’amante, non una dichiarazione di battaglia. Lei, la mafia, voleva i nuovi numeri di telefono, non poteva lasciare i messaggi in segreteria su quelli vecchi. Voleva riprovarci, dopotutto una convivenza di 50 anni non si butta via così.

Si andò avanti per un paio d’anni: Capaci, Via D’Amelio, Firenze, Milano … poi le acque si calmarono. Improvvisamente. Lo Stato ottenne qualche successo, ci consegnarono i mafiosi da mandare in pensione (è noto che il sistema della criminalità organizzata non prevede una cassa, se non per le vedove). Era iniziata una nuova stagione politica. Era il 1994.

Non ne è ancora iniziata un’altra.

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