IL MITO DELLA COMUNICAZIONE

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di Tommaso Matano

 Il 22 febbraio 2014, per quattro ore consecutive, l’applicazione di messaggistica istantanea Whatsapp cessa di funzionare. Accade di sabato sera: la comunicazione di milioni di utenti (450 milioni di persone sono attive mensilmente su Whatsapp) va in tilt. I giornali descrivono l’accaduto come un momento di panico, è un improvviso ritorno agli sms, alle telefonate, e il serpeggiare di un dubbio: si tratta di un problema del proprio smartphone o della rete? Il guasto di Whatsapp esplode come un cataclisma, costringendoci a riflettere sulla sua potenza. Nello stato patologico, il mezzo mostra la forza del suo meccanismo.

 Il sistema di messaggi veicolato da Whatsapp mantiene la distanza della forma scritta e la velocità della risposta immediata, facendo perno su un aspetto fondamentale: la gratuità e l’infinità dello spazio. Whatsapp piace perché supera la lentezza degli sms senza gettare nell’imbarazzo intimo della telefonata. Ma fa anche qualcosa di più. Occhio vigile e silente puntato verso la nostra vita quotidiana, Whatsapp comunica alla rete i movimenti degli utenti. Whatsapp fa sapere l’ora dell’ultimo accesso e l’avvenuta ricezione dei messaggi. Come la posta privata di Facebook attraverso la funzione del “Visualizzato alle…”, anche qui il dispositivo perfora la nostra privacy gettandoci di fronte ad un fenomeno apparentemente ininfluente ma dagli effetti sociali di portata essenziale: i nostri contatti possono sapere (o quantomeno dedurre) se abbiamo deliberatamente ignorato la loro comunicazione. Paradossale effetto collaterale, per dei mezzi che salvaguardano la distanza della forma scritta, l’inbox e il messaggio istantaneo soverchiano la barriera della nostra intimità, costringendoci a giustificare il ritardo della risposta. L’sms, che comprendeva nelle proprie regole d’uso il tempo talvolta lungo e l’esito non sempre garantito della risposta, diviene ora una componente comunicativa che richiede una prestazione puntuale. Stretti nella morsa della tecnologia, dunque, tentiamo di muoverci come fantasmi, senza lasciare tracce, per garantirci dal rischio del giudizio altrui.

 Le applicazioni di messaggistica istantanea portano con sé il peso dell’aspettativa sociale. A proposito di Facebook, l’inserimento del dispositivo di visualizzazione dei messaggi privati o la nascita del pulsante “like” hanno modificato severamente i nostri rapporti intersoggettivi e le modalità di interazione con gli altri membri della piattaforma. Ciononostante, tali meccanismi non sembrano fare problema.

 All’indifferenza nei confronti dell’enorme portata della rivoluzione della comunicazione privata corrisponde, per contrasto, l’attenzione ossessiva rivolta alla comunicazione pubblica.

 Mentre nella comunicazione privata si materializza una forma di coazione alla risposta, una pressione sociale in cui gli altri sono, prima che i nostri interlocutori, i nostri spettatori (dobbiamo dar conto del nostro privato come se fossimo in pubblico), nella comunicazione pubblica sembra delinearsi il movimento opposto.

 Il discorso pubblico non è chiamato agli stessi obblighi: attraverso velocità e schemi schizofrenici può anzi giocare funambolicamente con la coerenza, o tentare di sottrarsi alle regole del linguaggio. E ciò è tanto più paradossale considerando che il discorso pubblico si riveste della retorica della frattura tra palcoscenico e platea, fomentando l’idea che gli elettori siano interlocutori diretti dei politici. Comunicazione pubblica e privata sembrano dunque ispirarsi ai reciproci modelli, mantenendo però le regole opposte: nel privato siamo chiamati a rispondere, nel pubblico no; nel privato gli interlocutori si pretendono spettatori, nel pubblico gli spettatori si vorrebbero interlocutori. I due linguaggi hanno etiche diverse, a volte mischiate in modo complesso e confuso.

 L’immediato cambio di opinione, nella dimensione pubblica, non suscita alcuno scalpore. A causa forse di una pluriennale tendenza all’affermazione e alla successiva smentita, oggi la strategia comunicativa, che secondo il senso comune è lo strumento principale di ottenimento del consenso, ha margini per affermare una cosa e il suo contrario.

 Non stupisce la mossa repentina che conduce Matteo Renzi dall’ #Enricostaisereno alla richiesta delle dimissioni di Letta, stupisce invece l’assenza di una giustificazione coerente di tale mossa, da parte di chi della trasparenza delle sue intenzioni ha fatto il contenuto della propria battaglia politica. Perché Renzi, il pirotecnico comunicatore, ha lanciato messaggi così profondamente conflittuali? Perché, come poi è stato, il dibattito pubblico non ha davvero chiesto conto di tale contraddizione.

 Durante un’intervista di Giovanni Floris, Matteo Renzi dichiara che la comunicazione è il cuore del suo programma, perché bisogna che i cittadini sappiano ciò che si decide, così che possano controllare, verificare, sorvegliare. Aggiunge che la politica è qualcosa che si fa con i sentimenti. Il giorno in cui Renzi chiede la fiducia alla Camera dei Deputati, però, la scena del trionfo gli è sottratta dall’umanità degli sconfitti, dall’abbraccio, quello sì, emotivamente pregnante, tra Pierluigi Bersani ed Enrico Letta. All’improvviso la parlantina di Renzi, la sua lucidità, la presa del suo linguaggio, ingrigiscono e sfumano per lasciare i riflettori, quei riflettori che Renzi governa con la semplicità di un comunicato stampa, al pathos tragico delle vittime. Lo sguardo dell’informazione indugia sull’umanità dei rottami, mentre il rottamatore si produce in scambi di pizzini, tweet in diretta, mani in tasca, e altri meccanismi e strategie che, alla fine della giornata, non lasceranno traccia.

 Se ci si sforzasse di comprendere fino in fondo anche l’atteggiamento di un altro comunicatore, Beppe Grillo, si potrebbe riscontrare di nuovo la tendenza all’invio di messaggi contraddittori. Nonostante un programma politico che consiste nel megafonare il “popolo”, Grillo si serve di toni paternalistici e talvolta finanche snob. Proprio muovendosi sull’onda di un deciso anti-intellettualismo, non riconosce agli avversari sufficiente dignità per sedere al tavolo della discussione: i politici non hanno i titoli per parlare con lui nel merito dei problemi, i giornalisti non sanno fare le domande giuste. Grillo incontra il Presidente del Consiglio incaricato in diretta streaming (sul carattere illusorio dello streaming si è già detto qui) e gli dice che è “solo un ragazzo” (si veda l’analisi di Massimo Recalcati), e ancora risponde alle domande di un cronista de Il Fatto Quotidiano con l’espressione “Sei un ragazzo”. E’ sorprendente, detto dal leader di un Movimento che ha tra i “ragazzi” una componente elettorale fondamentale.

 Grillo fa parlare di sé fingendo di non voler parlare, cioè rifiutando il linguaggio del sistema che vuole decostruire. Il rischio di compromettersi con tale linguaggio lo costringe al farfugliamento, al frinire indistinto. Grillo ruggisce per non essere risucchiato da quegli usi linguistici che combatte ogni giorno e che, del resto, ha da tempo dichiarato morti.

 Paradosso, contraddizione, circolarità, ripetizione, colpo di scena: il discorso pubblico si configura per noi come farebbe un racconto di finzione, mettendo in atto una logica diversa da quella ordinaria, una logica “pratica”, che vediamo esemplarmente dispiegata dalle categorie della narrazione. Nel discorso pubblico, in altre parole, noi accettiamo cose che nel discorso privato non accetteremmo. Gli sfuggevoli e complessi meccanismi della politica, illusoriamente offerti alla nostra intelligibilità, si svelano nella loro incomunicabilità dando luogo a processi di comunicazione pubblica onnipresenti, ma, al fondo, restii a una tassonomia e dunque difficilmente comprensibili, mentre i paradigmi della comunicazione privata rimangono estranei al dibattito: il vertiginoso e trasversale cambiamento del modo quotidiano di dirsi le cose non si discute, perché è già sempre una nuova pratica. 

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