IL MITO DELLE IMMAGINI

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di Tommaso Matano

 

“Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”

Theodor W. Adorno

 

Secondo varie fonti su Internet, la foto che vedete proviene da Instagram e rappresenta gli ultimi istanti della vita di una ragazza di Shanghai. L’immagine è in soggettiva, l’obiettivo impersona gli occhi della protagonista. Non appena aggiungiamo alla fotografia la didascalia che la contestualizza, l’immagine diventa un film: la foto che era muta ora grida, la storia precipita, la nostra immaginazione si spalanca verso lo scandoloso spettacolo di una morte che ha tutti gli elementi per rivelarsi spettacolare. La ragazza ha rivelato che sta per buttarsi di sotto. Il fatto avviene in diretta, come un flusso, ma per fotogrammi, ed ecco allora sprigionarsi il grandioso paradosso della fotografia, quella temporalità che Barthes descrisse con chiarezza abbagliante: nell’immagine, la ragazza morta vive. Ma c’è di più. Il mezzo offre anche la possibilità di commentare la tragedia in diretta.

Che ne è dell’etica dello spettatore?

La Rete archivia nel suo spaziotempo la cronaca del suicidio di una ragazza: senza alcun filtro colleziona il più estremo dei selfie, quello che dà corpo alla fine, la testimonianza in tempo reale della propria morte. Se andiamo a spiare la vita di questa sconosciuta, troviamo un prodotto narrativo fatto di immagini in sequenza, in cui ci viene offerta una storia coerente, la cui drammaticità è occultata da tutti gli aspetti formali. È così ordinato e graficamente irreprensibile, il profilo Instagram della ragazza, che a ben vedere sembra ci sia una sola cosa drammatica nella storia: il fatto che sia vera.

Dare figura al vuoto che si spalanca sotto di sé: dopo questo, resta ancora qualcosa da testimoniare?

Immagine e parola, linguaggi che Internet intesse e salda, scinde e lavora, nel tentativo di offrire un dispositivo di mediazione con la realtà che renda possibile affrontare immediatamente il mondo e i suoi eventi: il grado zero dell’elaborazione. La sensibilità è invitata a svuotarsi della sua partecipazione attiva al gesto dello stare nel mondo; ridotta a ricettacolo, essa raccoglie un profluvio di immagini, le archivia una sopra l’altra.

Le Torri Gemelle in fiamme, le torture di Abu Ghraib, lo storicizzarsi degli eventi in diretta, il coagularsi della storia in icona: questo processo, che richiederebbe il gioco attivo della ricezione dello spettatore, sembra essere appaltato interamente alla proposta del medium. Avveniva in maniera lampante con i mezzi di comunicazione tradizionali: la televisione trasmette ex cathedra immagini che sono già sempre eventi intersoggettivi, che sono già elaborate, impacchettate per suscitare certe reazioni.

I nuovi media si muovono in un orizzonte analogo. Nell’atto con il quale si scatta una foto per condividerla su Instagram, non stiamo facendo altro che afferrare un pezzo di realtà per riproporlo, elaborato nella sua forma base, percettiva, con sottotesti minimi: filtri e hashtag. Produciamo immagini con la stessa facilità con cui le vediamo, questa è l’ovvia novità del presente: e d’altronde le produciamo con la stessa modalità con cui le fruiamo, iper-raffinate (grazie alla tecnologia) ma inelaborate. Complessificate, ma mute.

Non leggiamo le immagini, le guardiamo. È questo inconsapevole sforzo di rendere la realtà tale e quale essa è, questo modo che abbiamo di rigurgitare il reale sui social network, ossessionati dall’esigenza di registrare ogni protuberanza e grumo nello scorrere lineare della vita (di cui Snapchat è emblema), questo schizofrenico lavoro di registrazione che anziché testimoniare, fa il verso alla realtà, a poter spiegare, forse, certi fenomeni che riguardano le immagini contemporanee.

La pratica del dark tourism, ovvero quella forma di voyeurismo che gli individui esercitano nei confronti delle tragedie della Storia, su Instagram diviene la pubblica denuncia di comportamenti inadeguati.

I selfie ad Auschwitz sono una barbarie?

Il profilo facebook di un adolescente israeliano

Non lo sono perché violentano l’austerità che a quell’immagine si richiede. Lo sono perché non dicono ciò che dovrebbero, perché non si fanno carico di ciò che spetta loro in quanto testimonianze dell’orrore: dare voce alla sofferenza. Il compito etico ingombrante che si annida dietro l’obiettivo che fotografa Auschwtiz, oggi e per sempre, sta nel non potersi mai esimere dal dare voce a quel silenzio. Il dramma di Auschwitz sopravvive nella memoria in questo: che di Auschwitz si deve necessariamente dare testimonianza. Se il compito viene tradito, come avviene in questi casi, la fotografia non è più testimonianza, e non è neanche un gesto scandaloso: è soltanto non senso. Il problema è che non si possono scattare foto di Auschwitz “a grado zero”, impugnare la camera in quel luogo è già dire qualcosa della Storia, autenticare o oltraggiare il peso di quella realtà.

Una pioggia di immagini duplica, strania, instaura rapporti di prossimità o di distanza dal reale. Le immagini da sole non bastano, non dicono nulla. La loro voce chiede orecchie, il loro soggetto, svilito, pretende un’attestazione di autenticità. Le foto sembrano finte, serve che lo spettatore ne attesti la validità. L’immediatezza dello scatto della macchina fotografica è un mito: l’occhio innocente, diceva Gombrich, non vede nulla.

Ma cosa c’è dietro queste pratiche? Perché i selfie con i senzatetto?

Cosa significano quei sorrisi che giganteggiano in primo piano trasformando il disagio umano in sfondo, scenografia? Che cosa si annida nel compulsivo gesto di scattarsi foto durante i funerali, in questa forma di esorcismo, l’eros avvilito dal linguaggio del social media che prende a calci l’elaborazione del lutto?

Queste immagini malgrado tutto dicono l’insufficenza, l’inadeguatezza, l’impossibilità di maneggiare la realtà. Il disagio di affrontare la morte, la povertà, le tragedie della Storia: la pochezza elaborativa di fronte alle enormità della vita.

Ecco allora perché l’opera di Kara Walker, A subtlety, un j’accuse verso la schiavitù e la lavorazione dello zucchero, nonché la rappresentazione del paradosso che a dare scandalo non siano razzismo e schiavismo, bensì la nudità e la sessualità femminile, suscita una reazione del pubblico sbagliata (l’etica dello spettatore). Su Instagram le foto di chi ha assistito alla mostra rappresentano ancora una volta la scelta di sottrarsi alla complessità del compito di pensare ciò che l’opera sta chiedendo. La scelta è per la dissacrazione a tutti i costi, come se il linguaggio del social media lo imponesse: l’insostenibile leggerezza dell’etere.

Non c’è scatto o rito che Instagram possa preservare dall’hashtag, cioè da un’etichetta semantica che è in se stessa la negazione di un processo elaborativo: #Auschwitz, #racism, #death, #funeral, il cancelletto dice che il pensiero viene fornito già pensato.

Niente di nuovo, Horkheimer e Adorno lo dicevano settant’anni fa. Ma oggi lo spettatore è al tempo stesso produttore in un modo che in passato era sconosciuto. Il regime dell’immagine si riempie di icone fino a strabordare, ma sono icone cucite su misura per un certo uso, come se scadessero, ed è questo il paradosso: le immagini invece durano, imperiture. Sono immagini di carta, queste, infiammabili, manipolabili e al tempo stesso caduche. Perfino la retorica dei combattenti jihadisti viene formattata in stile social network, il selfie del jihadista che imita il narcos dei film gioca un’illusione alla nostra sensibilità: il suo kalašnikov sembra improvvisamente un’arma finta.

Non c’è etica nel produttore e nel consumatore di queste immagini, perché c’è l’illusione che esse siano semplicemente la vita colta sul fatto. In verità, nei confronti della vita, queste immagini sono una chiara attestazione d’inadeguatezza.

Al giovane studente di medicina che va in Africa a fare volontariato, la retorica degli hashtag dice: dopo un viaggio in Africa la tua foto profilo non sarà più la stessa. Tutto si fa per trovare una qualche conciliazione, un qualche appagamento con se stessi, anche la solidarietà, il sacrificio per gli altri. È ciò che Teju Cole chiama il White-Savior Industrial Complex, “qualcosa che non ha a che fare con la giustizia, ma con l’avere una grossa esperienza emotiva che legittimi i privilegi”.

Piegare la realtà, attraverso immagini infinitamente producibili, a un racconto fragile e autoreferenziale, che imponga la concordia. Iper-narrativizzare le icone, trasformare il ricordo in Storia, la vita privata in evento, parodiare il reale per nasconderne la complessità e ottenere alla fine un sorriso. Il proprio.

Forse selfie vuol dire soprattutto questo.

 

 

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