LA COSTRUZIONE DI UN RICORDO – RODRIGUEZ LIVE

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di Dario Rossi

“Forse loro erano come Rachael: avevano bisogno di ricordi.”

Blade Runner

 

Il concerto tarda a cominciare; il gruppo spalla ha finito da un pezzo ma il palco resta muto, restituendo solo l’eco dell’attesa e degli applausi a vuoto. Quando poi finalmente Rodriguez fa il suo ingresso, riesce a esasperare l’aura leggendaria che già eravamo pronti a riconoscergli: entra a tentoni, accompagnato a piccoli passi da una signora che potrebbe essere la figlia, anzi forse è proprio la figlia, dài non la riconosci?, quella più in carne, si vedeva nel film. Mi ero dimenticato questo dettaglio: Rodriguez adesso è quasi cieco; avevo letto l’informazione online ma l’avevo rimossa, chissà perché. Fa impressione vederlo mentre allunga la mano verso il microfono, guidato dalla figlia (ma è la figlia?), così come sono struggenti i due rettangoli di nastro carta che segnano a terra lo spazio dove tenere i piedi. Forse già nel film era cieco, ma non l’avevano detto? In effetti portava occhiali scuri tutto il tempo, ma che razza di informazione è questa, su cui glissare? Che grande, Rodriguez, ed è pure cieco.

Ecco, fin dall’inizio appare chiaro quale sarà il metro di paragone per questo concerto: Searching for Sugar Man, il documentario premio Oscar 2013. D’altra parte prima del film in Italia sostanzialmente nessuno lo conosceva, e se mi guardo intorno, se guardo le facce del pubblico, potrei tranquillamente scommettere il biglietto che chiunque, qua dentro, prima del 2013 avrebbe collegato il cognome “Rodriguez” giusto a Bélen, o forse al regista Robert, o a qualche calciatore. Mentre Rodriguez finisce di sistemarsi sul proscenio – sopra un piccolo tavolo due bottigliette d’acqua e una tazza di ceramica che contiene tè e miele, come ci rivelerà più tardi – il pubblico esplode in un’ovazione che dura alcuni minuti: improvvisamente l’Auditorium di Milano sembra trasformarsi in quello di Cape Town del 1998, diventiamo 5000 afrikaans che tributano il loro amore per una rockstar che credevano morta, il cantore dei loro anni di resistenza, attiva o passiva, all’apartheid.

Rodriguez ringrazia, e attacca a suonare il primo brano chitarra e voce, prima che entri anche la band. E dopo la semi-cecità, arriva una seconda discrepanza con l’immagine filmica che abbiamo impressa negli occhi e nelle orecchie: la voce. È strano ma, a proposito di dettagli, non ne avevo notato uno piuttosto rilevante: durante Searching for Sugar Man le canzoni di Rodriguez si sentono praticamente sempre nella versione originale su disco, quindi la voce che tutto il pubblico presente conosce è quella di un cantante meno che trentenne, nel pieno della prestanza e della maturità artistica, proiettata sul fisico e la faccia di un uomo anziano, che nel frattempo ha superato i settanta. Invece adesso, nella realtà presente, stiamo ascoltando dal vivo un musicista un po’ afono che, come succede a tutti, lotta con il suo fisico invecchiato. È successo a Bob Dylan, perché non dovrebbe capitare a Rodriguez? Ecco, per capire meglio la situazione potremmo immaginare di andare oggi a un concerto di Dylan avendo ascoltato sempre e soltanto Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, senza aver la minima idea della lima ferrosa e stridula che è diventata negli anni la sua voce. A un certo punto qualcuno dal pubblico inizia a gridare “Volume!”, seguito da altri – Rodriguez non capisce e ringrazia, sorridente – e dopo qualche secondo nel silenzio una ragazza addirittura urla “Voce!”. Voce… Come se potesse farci qualcosa, Rodriguez, se non ha più voce, se è quasi cieco, se non assomiglia al ricordo cinematografico che abbiamo di lui.

Prima di ogni brano Rodriguez fa una cosa piuttosto irrituale, in un concerto: abbassa a zero il volume della chitarra e prova tra sé e sé la canzone che eseguirà, come a volersela ripassare. Quando si sente sicuro, fa cenno alla band, alza il volume e attacca. Tutto ciò crea dei tempi morti abbastanza imbarazzanti per un professionista, e questo mi fa notare l’ennesimo dettaglio che, ancora una volta, mi era sfuggito: Rodriguez è in pratica una specie di anziano dilettante. Ha fatto due album sfortunati nei primi anni Settanta, ha avuto un qualche successo tardivo in Australia nei primi anni Ottanta, dove ha fatto un paio di tour e un disco live – informazione che il documentario furbamente tralascia – e poi nel 1998 è volato in Sudafrica per diventare la rockstar che non sapeva di esser sempre stato. Quindi in pratica Rodriguez è un musicista che ha vissuto solo due momenti della vita comune di una rockstar: la giovinezza della gavetta inesperta e difficile e la vecchiaia acquietata dell’eterno amarcord. Peccato che quello a cui stiamo assistendo è il revival di qualcosa che non c’è mai stato: Rodriguez non sta facendo il Never Ending tour che celebra una lunga carriera, non ci sta gratificando coi “pezzi vecchi”, quelli che i fan custodiscono gelosamente nei ricordi di una vita intera passata consumando vinili e poi cassette, cd e mp3. Se Rodriguez suona per noi le canzoni dei suoi primi due album è perché sono gli unici due che ha inciso, e gli unici due che noi abbiamo conosciuto in tempi assurdamente recenti. Era il 2013, soltanto un anno fa, che cosa ci è preso, cos’era questo struggimento generale, questa attesa che ha portato un po’ tutti, me compreso, a postare su Facebook nei giorni scorsi Sugar man o Crucify Your Mind, preannunciando brividi e commozione per un evento che ci sembrava storico, l’incontro con una vecchia gloria che da sempre ci accompagna in quella che il giornalismo più trito chiamerebbe “la colonna sonora della nostra vita”?

In un articolo, Gabriele Niola sottolineava come Searching for Sugar Man rientrasse in quel filone recente di documentari che aspirano a una costruzione narrativa che domini la realtà referenziale dei fatti narrati piegandola alle leggi del racconto.  E cosa fa il racconto nella sua forma più pura, se non creare miti? Ma la combinazione tra realtà documentaria e meccanismi narrativi classici fa un passaggio ancora ulteriore e incredibile: riesce non solo a creare miti, ma a convincerci che quei miti siano sempre esistiti, li colloca in quella zona del cervello che si occupa della gestione della memoria. Ecco, ci siamo presentati al concerto di Rodriguez convinti di riconciliarci con il nostro io passato, di tornare giovani e belli, di riascoltare dopo anni quel grande vecchio che così tanto ha significato per noi. Come i replicanti di Blade Runner, cullavamo i nostri ricordi innestati, prima che l’evidenza del reale – la cecità, la voce che manca, la scarsa padronanza del palco – arrivasse ad allargare la distanza con quanto credevamo di ricordare, accartocciando senza pietà le nostre fragili bellissime memorie di celluloide.

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