Mappa di ritorno

Conosco questo viaggio a memoria.
Le alpi, poi Torino, Genova o Milano, Firenze. Ogni volta il ritorno rallenta e dilata il tempo, rendendo insignificante la durata dell’espatrio. Da fuori spesso le cose assumono contorni più definiti. E spesso è più facile misurare le proprie aspettative su qualcosa. Non è assolutamente il mio caso. Mi bastano 24 ore da straniero per aspettarmi di tutto. Salgo sul treno in Francia e mi godo quindi l’ennesima attesa per la riscoperta dell’Italia: sto viaggiando verso un paese migliore, dove le cose a volte funzionano, dove il dialogo non si è del tutto annullato, dove le parole hanno ancora un senso, dove la tendenza a distinguersi non è presa come devianza sociale, dove il miglioramento personale è cellula staminale per la crescita sociale, e non solo un modo per attirare invidia. Ma prendere un treno per stupirsi della meta o del percorso è abbastanza stupido: così come sperare, ogni volta, che il ritorno all’Italia possa sorprendere.

Torino

E già tutto sa di immobile. Il peggioramento progressivo dei treni su cui salgo ad ogni cambio (prima il rumore, poi gli scossoni, poi i sedili, poi l’aria) suona come un risveglio brusco da una catena di sogni. Torino oggi, sarà per il grigio acciaio del cielo, sta li ad annunciare la nostra Italia a due piani, in cui chi sta sotto sotto rimane, sia Signore Re o Padrone chi ci comanda o guadagna. Da suddito a impiegato il passo è breve, oggi.

Milano
Milano Centrale non è solo il nome di una stazione, ma di un’idea, di una città con le sue mille rivoluzioni mancate. Passo a Milano quando il nuovo possibile cambiamento è solo nell’aria. Forse è la volta buona che si smette di accettare tutto come inevitabile. Anche se vedere i turisti alle prese con la scoperta del significato sociale e paradigmatico del termine “sciopero” (schiopéro, what’s shaiopewoo…), velleità di chi vede sempre e per sempre il mondo come fordista e che di sicuro ci libererà, parla di noi più di mille elezioni. Faccio anche amicizia con due dei molti napoletani che ti chiedono 2,20 € per finire di comprarsi il biglietto (ma perchè 2,20…) e ti spiegano poi che, paisà, ci costa 8 euro all’ora stà quà a chiéde i soldi. Capìsci! Si lascia Milano col degrado dei palazzi in pianura e vecchie cascine.

Bologna e Firenze passano rapide, fredde. Vecchie istantanee di decenni rampanti, e splendide idee di noi in cui specchiarsi. Buoni per i flash di macchinette o memoria. I colli nascondono buona parte della vista, quando spuntano da tralicci, cemento e periferie. E forse laggiù c’è ancora un pezzo di Paese, una terra senza di noi, un’Italia a cui tornare.

Frosinone
Due settimane dopo, non più in treno ma in macchina. Schiacciato tra tir e suv, è tutta fatica risalire verso Roma. Sono stanche perfino le case e i borghi appesi ai colli, soffocati dalle strade, dagli abusi, dalle migliaia di vite-destino di forzati dell’asfalto. Siamo un paese ingessato da tangenziali e caselli. Il vento che dice sia cambiato qualche centinaio di chilometri da qui non sembra interessare nessuno. La capitale guarda stanca e rassegnata le formiche che pullulano intorno operosamente impegnate a perdersi.

Tra Narni e Amelia

Questo strano viaggio si conclude per strada, da Frosinone a Perugia. Abbandonata l’A1, arrampicandosi tra i boschi ombrosi che aprono la porta a sud dell’Umbria ci si sente colpevoli. Perchè si trova a volte pace e serenità nell’isolamento, nel ritiro e nella conservazione. Che per ora l’Italia a cui tornare è solo questa, e forse non è nemmeno tanto male.

Nicola Cappelletti

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