Pascal e vino

Non è fra i più facili dei propositi cominciare una collaborazione con Il Bureau con un articolo sull’alcool. Ma lo sarebbe stato ancor meno se mi fossi prodotto nella solita litania medica, nel solito monito sui problemi del fegato e del cervello. Posto che questi siano importanti e che invitiamo tutti ad informarsi in proposito, penso sia lecito, una volta tanto, guardare il fenomeno da un punto di vista dell’impatto del bere sull’anima, soprattutto quella confusa, energica, a tratti impalpabile della gioventù italiana che incontriamo un giorno sì e l’altro anche, facendone parte.

Notizia del 27 maggio: è morto Gil Scott Heron. Un Soul Man di classe, divenuto famoso per la qualità della sua voce, per la sua poetica spoken word dai contorni “socialmente impegnati” ma anche per la sua duttilità in ambiti musicali che dal funk e il soul, sul finire degli anni ’70, preparava il terreno alla nascita del rap, del suo senso: «Giovani rappers, un altro consiglio, prima di togliermi dalla vostra strada.

Apprezzo il rispetto che mi tributate e quello che voi avete da dire». Personaggio profetico, eclettico, artista di rilievo, dunque. Un suo grande successo che però pare dimenticato, in questi giorni, fu “The Bottle” (1978), grandiosa, irripetibile canzone sia nel testo rappresentativo di un alcolismo elegante, sia per il groove unico e raffinato. L’inquietudine del testo, unita al nobile portamento dello strumentale, è una metafora del bere alta e densa, una testimonianza di profondità. Un artista della bottiglia e del sangue che ribolle.

E’ sullo sfondo di questo tributo che vorrei si concentrasse l’attenzione sul fatto, del bere, piuttosto che sul suo “problema”, che è derivativo, eventuale, in altri termini proprio un altro discorso.
Il fatto del bere, e del bere tanto, ossia il suo fenomeno, se isolato dalla tensione morale di chi lo rinnega così come dalla immoralità di chi lo vive come manifesto scemo del proprio weekend, è di fronte agli occhi con una forma di ineluttabilità ben difficilmente superabile dalla mera turgidezza degli schemi emotivi del diniego o del favoreggiamento.

La storia è ben più lunga, e riguarda l’uomo e il suo costruire una casa per lo spirito, anzi “sotto spirito”, se mi si passa la metafora etilica. Una casa che oggi, il più delle volte, si regge seppur nella completa dimenticanza delle sue fondamenta. La tesi che qui vorremmo argomentare è che Blaise Pascal è un imbecille e che molta della colpa sia la sua. Leggiamo nel Frammento 139 dei “Pensieri”:
 
« […] ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera. […] ho voluto scoprirne la ragione, ho scoperto che ce n’è una effettiva, che consiste nella infelicità naturale della nostra condizione, debole, mortale e cosí miserabile che nulla ci può consolare quando la consideriamo seriamente.»
 
E così anche nel frammento 171:
 
«L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie.»
 
Il tema, che è quello ben noto del divertissement, è ciò che in forma volgare e frettolosa viene oggi inteso come “lo sballo”, nelle varie forme copulative da reporter d’assalto come “i giovani e lo sballo” e via di questo passo. L’aiuto che in questo caso Pascal ci dà sta nella possibilità di vedere come il concetto di divertissement venga da lui inteso come una forma di “distrazione” dalla missione dell’interiorità, della meditazione su se stessi e sulla verità.

Il divertissement è una deviazione di percorso dalla coscienza della propria mortalità, una sua esorcizzazione e un pericolo per la condotta morale e intellettuale del buon cristiano, così come del buon uomo generalmente inteso. Ma il problema è che tale concezione fa da sfondo di coscienza sia al moralista che al profano dissennato. Per il primo la scissione che si produce fra mondo interiore, suo lavorìo e bere rende quest’attività mostruosa e maledetta; per il secondo, è proprio tale maledizione, la fonte del fascino: il bere viene svincolato da ogni responsabilità dell’anima e può dunque rivestire in tranquillità il ruolo di anestetico della vita, camuffandosi però da vitalità prêt-à-porter.

La spiritualità ne esce comunque lacerata e dismessa dalle sue vesti onniavvolgenti e dal suo compito di sublimazione. Ma lo spirito non conosce separazioni fra vizi e virtù: conosce solo la loro commistione in favore di una verticalità, di un superamento del mero quotidiano e del mero nascere e perire di tutte le cose. Ma un alto grado di spiritualità può essere auspicato, e mai preteso. Ecco che quindi, di fronte alle occasioni di bevuta degli italiani, troviamo i più sfaccettati oblii o le più vicine opportunità di riconciliazione con l’elemento dionisiaco insito in ogni avvicinamento fra l’anima e l’alcool.

Dal tipico aperitivo come forma di socializzazione, nella sua frivolezza come nella sua occasione relazionale e vitale, all’itinerante percorso delle “Cantine aperte”, dal rigido e compassato estetismo del “piccolo goccio” del sommelier  a quella sorta di rito cultuale dionisiaco confusionale delle discoteche, fino alla solitudine nobile e decadente del bevitore solitario (non farebbe male a chiunque, leggersi “La leggenda del santo bevitore” di Roth) si è pur sempre di fronte ad un’esigenza dell’anima, più o meno coscientemente vissuta, a metà fra estasi e semplice scappatoia dagli eccessi di orizzontalità di un mondo che sempre più tende a limitare le risorse sublimative del soggetto di fronte al mistero della vita, forse troppo spesso sostituito dal mito della tecnica, odierno, della funzionalità dell’immediatamente utile.

L’auspicio della presente riflessione, come detto in principio, non è dunque quello di inquadrare moralmente un problema, quale quello di suggerire una chiave di lettura di un fatto, possibilmente secondo una prospettiva che superi la dicotomia pascaliana del divertissement come deviazione dalla conoscenza e dalla contemplazione della verità. La verità è dura e anche nell’errore, nell’eccesso, così come nel buon governo di un proprio vizio, annida le sue uova d’oro. In un frammento della primavera del 1881 Nietzsche appuntava: «Un uomo, che giornalmente deve ingoiare tante miscele velenose, è sempre da ammirare, se conosce periodi di grandi sentimenti, e in generale non nutre una ripugnanza di principio per tutto ciò che è grande».

Ecco che l’auspicio di un nuovo dominio morale sul “vizio” prende una forma più grande. Un dominio che prenda coscienza del negativo senza scostarlo preventivamente. Nel cattivo spettacolo di chi vive l’alcool come un mezzo per la libera uscita della frustrazione, all’ordine del giorno nelle nostre cronache locali, il mio articolo vuole fungere come una dura condanna. La presa di coscienza dell’abuso dell’alcool nel nostro paese vuole, secondo la mia posizione, condannare l’incoscienza del bere, più che il bere in sé. Socrate era ben noto per l’essere in grado di continuare a sostenere la sua dignità lungo i simposi senza mai scomporsi, nonostante, a quanto pare, bevesse grandi dosi di vino.

Quando si trattò di dover morire per le leggi della città che lo condannarono, si bevve d’un fiato anche la cicuta e si lasciò abbracciare dalla morte da essa prodotta. In lui, il filosofo della ricerca della conoscenza per antonomasia, per dirla con il frammento nietzscheano prima citato, sia il bere, sia il simposio, sia il conoscere, sia le leggi, erano delle grandezze verso le quali egli non avrebbe mai potuto nutrire ripugnanza.

Bere non è affatto cosa facile e immediata, senza una meditazione sul suo rimando a dimensioni ulteriori, spirituali. Finché così non sarà, avrà sempre ragione Gil Scott-Heron nel cantare «Don’t you think it’s a crime when time after time/ people in the bottle». Quel suo “right here” alla fine del pezzo, detto con stanchezza e sensualità per fermare gli altri elementi della band che  seguivano apollineamente il suo mantra dionisiaco, rimarrà per sempre impresso.

Simonfrancesco Di Rupo

Commenti

commenti

0 Comments

Leave a reply

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>