armstrong_ilbureau

di Simon F. Di Rupo

Considerare le notizie di ciclismo relative al solo campo dello sport, della “giustizia” o del gossip è miope. Non c’è forse ambito sportivo più tartassato dal dilemma morale quanto appunto il ciclismo. Una pratica in cui l’uomo e la ruota, originario suo successo tecnico, combattono contro le strade che l’uomo stesso si disegna nei meandri di un mondo attuale in cui natura e tecnologia si contraddicono e si sorridono sempre di più.
Nelle grida circensi riguardo l’ammissione di doping di Armstrong, l’informazione ci lascia lo spettro di un uomo che piange per una carriera di vittorie basate sull’inganno, e l’ombra di un pubblico avvoltoio pronto a girargli intorno nel deserto improvviso dei valori. Un uomo che per voler essere più d’un uomo, si dichiara di non poter essere nemmeno più tale.

L’antipatia insita in qualunque vincitore ha solo un lieto fine, per il punto G dell’opinione pubblica: la morte. Riconoscere a un talento lo statuto di campione combina sempre il fascino verso una forza fuori dal comune con la domanda, o meglio l’appetito, circa la sua fine. Il riconoscimento di una forza superiore in un uomo riesce a essere tollerato soltanto nella misura in cui la superiorità lascia traspirare l’ipotesi di un suo spegnimento, così da lasciar spazio, alla forza minore di chi ha sempre applaudito, per il ghigno di chi tuttavia rimane – dove non si sa, ma incolpevole di certo. Incolpevole del talento e della sua autocombustione anomala e fantastica.

Nel caso di Armstrong l’unico peccato non è stato quindi quello di essersi voluto avvicinare agli dei: è piuttosto il contrario. Armstrong si è fatto pubblico, si è guardato con gli occhi dell’avvoltoio e, stupito del suo talento, ha aspettato la sua morte nella lenta creazione di un boia interiore, con la chimica silenziosa ma confidente di un doping infallibile. Impietoso con il significato del suo stesso cognome, Armstrong ha abbandonato la seduzione della vittoria per l’amore verso la ripetizione del boato pubblico. In questa libidine forzosa a tinte fosche, il capitolo finale non poteva che essere quello di rendere pubblico il suo esser diventato appunto pubblico. Pubblico di se stesso.
Nell’orgia del disvalore il campione che congeda con sprezzo gli dei si abbandona all’opinione della massa e all’ancestrale desiderio di vedersi da morto che ognuno di noi ha, trovando nuova linfa nella possibilità di una consacrazione morale al di sopra di qualsiasi talento, che per sua natura è amorale. Un itinerario autoerotico e al contempo orgiastico in cui solo attraverso lo specchio della libidine altrui si può concedere a sé stessi il lusso di lasciare il proprio superuomo a casa, o in un distante e sciocco passato.
Un vero “peccato”.

<<Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima? Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi?>>. Federico Guglielmo Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi, in Opere, vol. VI, tomo 1, pp. 23-25.

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