LO ZOO DEI CONCETTI

il-burea-tommaso-melilli-vecchi-tropici-1

di Tommaso Melilli

Ci sono varie ragioni che mi hanno convinto a ritardare la pubblicazione del primo “tropico”.

La prima è legata a tutta una serie di convenzioni del genere, al fatto che  quando si parte per un viaggio di questo tipo bisogna ben ponderare ogni passaggio, e quindi esitazioni, false partenze e ruminazioni engagées sul dove da cui si parte.

Infatti avevo pensato di cominciare dicendo alcune cose su alcuni quartieri di Parigi, avevo pensato di ricordare che Parigi è fatta a chiocciola e che di quartieri ce ne sono venti. Avrei sicuramente dissertato sul caso che mi ha fatto abitare, in questi anni, nel primo e nel ventesimo arrondissement, che vuol dire in due posti che più diversi non si può: da una parte il cuore artificiale della città – un non-quartiere ricco frettoloso e commerciale – e dall’altra, adesso, nell’ultimo limbo di terra municipale non ancora completamente gentrificato.

Un dente dolorante ha deciso che non era il caso di rileggere e riordinare le note che avevo preso su suburbie e progetti di “Grand Paris”, che del resto forse avrebbero annoiato un po’ anche me. Così, nel fine settimana, tra l’altro leggendo un giornale italiano, ho appreso di un evento culturale di massima importanza che mi era inspiegabilmente sfuggito. A una decina di minuti di camminata da casa mia, sabato scorso, ha riaperto lo zoo di Parigi.

Meglio noto come lo zoo di Vincennes, questa specie di cenerentola delle istituzioni diversamente animaliste era stata chiusa nel 2009 causa crolli, vetustà e disinteresse massiccio del pubblico pagante.

A quanto ne so, la ristrutturazione in corso era sfuggita un po’ a tutti, che si sono ritrovati due settimane dopo le elezioni in grado di dire che sì, anche Parigi ha di nuovo uno zoo.

Di colpo mi viene in mente che, benché per i parigini sia meta frequente di grandi passeggiate con camembert nella sportina, e benché sia a un passo da casa mia, io a Vincennes non ci sono mai stato. (Tranne quella volta che mi sono addormentato sul bus notturno e l’autista al capolinea mi ha pregato di scendere, e ho aperto gli occhi nel buio trovando l’enorme leviatano del castello illuminato: ma secondo me quella volta non conta).

Però la Parigi di oggi, eterna seconda e forse oramai anche terza classificata al concorso delle capitali europee più civilmente avanzate, non può permettersi uno zoo normale. E infatti la stampa promette scintille.

In un’Europa animalista a giorni alterni, e in un paese dove una bistecca costa come lo score dei Verdi alle elezioni, mettere degli animali in gabbia per mostrarli ai bambini non è cosa che si possa prendere alla leggera.

La soluzione è presto detta: fare uno zoo senza gabbie. Approfittandone per ricostruire le rovine, inventarsi degli anfratti che, grazie a studiatissimi dislivelli rispetto al sentiero dei visitatori, impediscano agli animali di saltare fuori, tutto ciò senza che fra gli occhi di chi guarda e gli occhi dell’animale ci siano cancelli e grate.

Tra l’altro, mi viene secondariamente in mente, non sono nemmeno mai stato in uno zoo. Di colpo il dente fa un po’ meno male, perché per un reportage che vuole guardare l’Europa come se fossero i tropici mai potrei lasciarmi sfuggire l’occasione di andare a vedere dei parigini di oggi che guardano le giraffe. Quindi, quel pomeriggio stesso, raccolgo i miei effetti e parto a piedi alla volta dello zoo concettuale. Pago il costoso biglietto: più o meno il doppio di una giornata al Centre Pompidou, e in più il bigliettaio ti precisa gentilmente che “toute sortie est définitive”, e tu già pensi agli animali, e ti chiedi se glielo dicono che per loro è definitivo l’ingresso.

Comunque: appena entrato mi guardo intorno e l’unica cosa che vedo è altra gente che si guarda intorno. Anche se non ci si parla, è evidente che condividiamo tutti un certo statuto di pionieri, di visitatori primi, e gli occhiali eccentrici con montature di design delle madri – prevenute o eccitate all’idea dello zoo concettuale – sembrano subito binocoli.
Lascio da parte le considerazioni sul ragionamento che ha portato a costruire una cosa del genere, risolvendo il problema degli animali in gabbia con un gioco delle tre carte. Come se il problema fossero le gabbie, e non il fatto di utilizzare degli animali per dare una carta in più ai propri fine settimana.

Mi concentro sull’idea e, come dicevano i telecronisti di un famoso videogioco, sulla realizzazione.

La prima cosa che ci si trova davanti è la vasca delle otarie. Ora questa vasca è molto grande, molto blu e sopraelevata, così che le persone possano guardare attraverso i vetri e i bambini, idealmente, dialogare con i quattro natanti che si avvicinano e si allontanano a seconda dell’umore. Avvicinandosi, però, accanto al cartello esplicativo con disegni, c’è un altro piccolo cartellino, che dice che le quattro otarie sono arrivate dieci giorni fa dalla Spagna, che sono ancora timide, che esitano ancora a uscire dalla loro alcova, e che siccome sono solo quattro e la vasca è grande davvero, molto probabilmente non le vedrete. Onestamente, non siamo in molti a esser delusi dal non poter vedere le otarie, quindi seguiamo un po’ tutti il flusso e si tira dritto.

Passo accanto a un gazebo dove delle ragazze tatuano i bambini con frasi dell'”Origine delle specie” di Darwin, finché approdo, senza il minimo senso della suspense, al leone. Anche per il leone c’è un cartellino che dà tutta una serie di informazioni. Per esempio che, per “il re degli animali e l’animale dei re” è stato concepito uno spazio tutto particolare, con al centro una specie di caverna in cui possa trovare il giusto riposo aristocratico. Viene specificato che l’accesso della caverna, per ragioni astronomiche che non ho capito, è orientato verso l’unico lato non visibile al pubblico. Insomma, rassicura il cartellino, siccome il leone dorme intorno alle venti ore al giorno e lo zoo è aperto dalle 10 alle 19, è estremamente improbabile che riusciate a vederlo.

Io, naturalmente, l’ho visto.

Img 1

Subito dopo ci sono i puma. Cioè, c’è un punto di osservazione dove, sta scritto, arriveranno “presto” tre puma dall’Australia.
Ciononostante il punto di osservazione è popolatissimo di padri che, un po’ per far vedere agli altri che hanno capito il concetto e un po’ perché c’è sempre qualcuno che non legge le istruzioni, scrutano attentamente la fitta vegetazione.

Poi ci sono le giraffe, e quelle si vedono.

Sono parecchie, e abbastanza costipate. Non c’è niente da dire, le giraffe fanno sempre il loro effetto. In realtà lo spazio lo avrebbero, ma sembrano aver deciso di passare le loro giornate a percorrere in un senso e nell’altro il lungo sentiero di cemento che attraversa il loro campo, e la processione è parallela al sentiero degli umani immobili, che possono scegliere il punto di vista ideale.

Img 2

 

Per farla breve, lo zoo mi è sembrato piccolo, confuso e anche piuttosto bruttino: c’è un solo leone, un’inspiegabile inflazione di giraffe, e neanche un elefante. In più, è organizzato talmente male che ho rischiato di andare via senza vedere il coccodrillo. Talmente male che cercando il bagno mi ritrovo circondato da quarantacinque fenicotteri rosa, più tre bianchi, che non posso impedirmi di pensare siano stati messi lì in omaggio al gusto molto teorico e molto francese per tutto ciò che è minoritario e irregolare.

Dimenticavo: il coccodrillo, in realtà, è un mini-caimano lungo probabilmente una trentina di centimetri. Dico probabilmente perché l’esperienza del “vedere il coccodrillo” corrisponde più che altro ad assistere – se non a partecipare – a un ted talk tra quattro dodicenni davanti alla vasca, cercando di stabilire se sia legittimo o meno che il mini-caimano si ostini a non manifestarsi, fra un “non hai capito, è proprio questa l’idea” e molti “ma la mamma ha pagato anche per quello”.

E penso che chi ha pensato questo zoo per i parigini, facendo di tutto per evitare di mettere gli animali in gabbia, ha finito col mostrare al pubblico una collezione grottesca e frustrata di un certo modo per certi versi molto parigino di ragionare. Di fronte al “coccodrillo”, nella serra, giusto sotto un bradipo in fuga, c’è una piccola aiuola tropicale: ci giro intorno per capire cosa c’è da vedere, finché – grazie al solito cartellino – capisco: le formiche.

 

Img 3

 

Dopo quasi due ore di perlustrazione la nausea prende il sopravvento sullo slancio antropologico. Mi ero ripromesso di fare un secondo giro per riprovare qualche foto storta o per sostituire i bambini mossi con altri fermi, invece vado a casa.

Ritorno a piedi, e siccome è fine pomeriggio e mi sento soddisfatto del lavoro, decido di fermarmi a bere una birra in uno dei bar che tutti mi nominano quando dico dove abito, dicendo che è un posto simpatico e al tempo stesso non ancora troppo gentrificato, e dove non sono mai entrato. Il locale è una stazione del tram ricondizionata, ed è sopra i binari della petite ceinture. E’ la vecchia linea del tram che circondava tutta la città, e che segnava l’inizio della periferia e al tempo stesso permetteva di girare in tondo con un treno. Oggi Parigi è più grande, anche se non di molto, e hanno cercato di rifare una linea del tram dello stesso tipo, ma non ci sono riusciti. Cioè, il tram c’è, ma quel giro in loop non si può fare più, perché la linea nuova non è finita, perché mancano dei pezzi e perché Parigi ha smesso di essere tonda.

Sono nato in campagna, in un paese dove c’è un quartiere solo, e quando sono arrivato qui, in quella zona che dicevo prima, il primo arrondissement, mi ero convinto che la vita “di quartiere” era una cosa che non esiste più, un po’ come dicono i sociologi della metropoli contemporanea. Anche quando sono arrivato nel ventesimo, come spesso capita agli expat, ho pensato che il quartiere non esistesse, che non ci fossero legami. Che quell’identità che alcuni continuano a rivendicare è un dinosauro delle strutture sociali, e che fra tutti i tipi di appartenenze da cui cerco di sfuggire quella di quartiere è in fin dei conti abbastanza inoffensiva.

Ora abito appena passato il binario, e c’è questo paradosso che gli amici che vengono a cena da me mi raccontano le cose degne di nota del posto dove abito, e io ascolto: pare che il Comune, di tanto in tanto, continui a prendersi cura dei binari della piccola cintura. Ormai inutilizzati se non per delle passeggiate clandestine, due volte l’anno ci passa un treno, per vedere se tutto va bene. Poco fa ci sono state le elezioni comunali, alle quali ho votato, quindi ho seguito tutti i progetti dei vari candidati. Tutti volevano far triplicare la superficie della città, deglutendo un altro po’ di periferia e chiamandola il “Grand Paris”. Però non riesco a non pensare che questi vecchi binari della piccola cintura vengano mantenuti come se si temesse che Parigi si rimpicciolisca da un momento all’altro.

Al bancone si sta discutendo di un graffito nei paraggi, e io ascolto in silenzio. Ecco un’altra cosa con cui ho sempre creduto di avere poco a che fare, la street art. Sono arrivato a conversazione iniziata, ma a un certo punto capisco perché tutti stanno parlando del graffito dietro al bar. L’autore del graffito, Bilal Berreni, dopo otto mesi, è appena stato identificato: in un obitorio di Detroit, con una pallottola in testa.

Continuo ad ascoltare la conversazione, che un po’ diventa commossa e un po’ scade nei cliché del caso. Nel frattempo, finendo la birra, comincio a cercare notizie di lui su internet. Scopro che era franco-algerino, e che durante le rivoluzioni in Libia e in Tunisia era andato a chiedere dei morti e a disegnarli sui muri delle strade. Poi trovo anche una lista delle cose sue in città. Prendo una carta per turisti molto approssimativa e comincio a segnare puntini. Ci sono cose sue quasi solo a nord-est, in media quattro o cinque graffiti per arrondissement.

Il ventesimo fa eccezione. Oltre ad essercene molti di più, ce ne sono un po’ sparpagliati, ma molti sono in vie il cui nome mi è familiare: rue de Bagnolet, rue Avron, rue Saint-Blaise, rue des Pyrénées. C’è una cosa sua praticamente in tutte le vie intorno, ma nessuna nella mia. La cartina è approssimativa ma la sensazione, una volta finito di fare i puntini, è che Bilal abitasse accanto a me.

Dopo aver chiesto nel modo più sconclusionato agli altri clienti del bar se sapevano dove abitava, e senza avere risposta, chiedo come si fa a vedere questo graffito dietro al bar. Mi dicono che bisogna uscire, fare il giro e arrampicarsi sui binari. Lo faccio. Vado avanti e indietro per un quarto d’ora buono, finché una coppia esce da una porta che non avevo visto, e mi chiedono cosa ci faccio lì. Io gli chiedo cosa ci fanno loro, e loro fanno un progetto fotografico sul silenzio.

Gli dico che io cerco un graffito, lui mi dice che ce l’ho dietro. Capisco che vogliono una sigaretta. Ne accendiamo una tutti e tre e guardiamo: loro cominciano a rimpiangere Bilal, ma io non li ascolto più. Gli chiedo quanti anni hanno, e ne hanno quattro più di me. Bilal, faccio a meno di dirvelo, aveva la mia età.

Ah, non si firmava col suo nome.

Nel quartiere lo chiamavano Zoo-Project.

 

Img 4

 

Commenti

commenti

0 Comments

Leave a reply

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>