VECCHI TROPICI

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di Tommaso Melilli

Qualche anno fa, cercando di sfuggire alla noia brutale dell’università di banlieue dove studiavo, mi sono ritrovato ad un seminario di letteratura contemporanea piuttosto strano. Tra teorie dei sistemi applicate ai romanzi d’esordio, concezioni estetiche raffinatissime e qualche cabala sul mercato del libro, rimasi particolarmente stupito dal fatto che mai, in nessun caso, venivano fatti esempi precisi. In sostanza, un corso di letteratura in cui non si parlava mai di libri. Ho poi imparato che il pubblico del seminario, decisamente più numeroso della media, si divideva in una ristrettissima frangia di aficionados, una larga parte di perplessi, e per il resto in astanti apparentemente incapaci di produrre giudizi. Compatibilmente con la mia riluttanza alle due ore di metropolitana e in generale a stare seduto e zitto, ho poi frequentato per un po’ il corso (e gli aficionados), ma questa non è una storia particolarmente interessante.

A un certo punto, durante quella lezione, saltò fuori finalmente un esempio: si discuteva di quello che imparai essere, come si dice, uno dei più interessanti casi letterari della Francia dell’immediato dopoguerra. “Tristes Tropiques” di Levi-Strauss, si diceva, “il più importante libro della storia dell’antropologia”, quando uscì nel 1955, non fu affatto percepito dal pubblico come lo leggiamo oggi, cioè un’opera rivoluzionaria che smonta una disciplina come una radiolina e che al tempo stesso la rifonda da capo. Esagerando forse un po’, o forse perché c’è a chi piace dire che le cose non sono mai come sembrano, imparammo che per i contemporanei “Tristes Tropiques” era un romanzo. Tanto che l’Académie Goncourt, che somministra l’omonimo premio e che è una versione un po’ meno caciarona e più baffuta degli Amici della Domenica del Premio Strega, scrisse a Levi-Strauss per scusarsi di non poterlo premiare perché, malgrado l’incontestabile valore letterario dell’opera eccetera eccetera, “Tristes Tropiques” non era un’opera di finzione, non c’erano nemmeno i personaggi, insomma non poteva avere il premio perché quello che raccontava era troppo vero.

(Tra l’altro, per farmi un’idea, sono andato a vedere cosa masticava la giuria del Prix Goncourt in quegli anni: l’anno prima aveva vinto Simone de Beauvoir, l’anno dopo Romain Gary, mentre nel 55 diedero il premio a Roger Ikor, uno che tra l’altro ha poi fondato un “Centro contro le manipolazioni mentali”, che esiste ancora, e che da quello che ho capito dev’essere una specie di squadra di Ghostbusters che combatte sette di ogni tipo.)

Comunque, questa leggenda delle scuse è circolata per decenni, e infine confermata dallo stesso Levi-Strauss, che a quanto pare rispose che non c’erano problemi e che andava bene così.

Uscendo dal seminario, quel giorno, faccio un giro nell’atrio dell’università fra le poche decine di libri usati venduti da un personaggio cui non sono mai riuscito a rivolgere la parola. Le probabilità di trovare libri interessanti in quelle scatole di plastica sono estremamente ridotte, una sola volta avevo comprato una cosa che dovrebbe contenere la prima descrizione geografica dell’occidente visto da un arabo, un certo Idrîsî, vissuto nel XII secolo.
Incastrato fra un manuale di psicologia dell’infanzia molto sfruttato e un’antologia degli scrittori preferiti di De Gaulle (intatta), quel giorno, naturalmente, c’era un esemplare di “Tristes Tropiques”.

Non sono mai stato particolarmente interessato all’antropologia, e per un bel po’ ho nutrito verso la letteratura di viaggio un pregiudizio sincero e generico. Se per farmi dimenticare l’antropologia era bastata la storiella del Prix Goncourt, l’incipit di “Tristes Tropiques”, che è piuttosto famoso, ha contribuito non poco a farmi dire, oggi, che una delle cose che mi interessano di più è la scrittura di viaggio: “Je hais les voyages et les explorateurs”.

Ogni pagina che finivo di leggere si staccava, tanto che a un certo punto ho dovuto portarmi in giro la mia copia dei tristi tropici in un sacchetto di carta. A parte qualche complicazione pratica e un paio di pagine sul mito del buon selvaggio scivolate sui binari di Barbès, smontando il libro mi sono reso conto che avevo sottolineato solo le parti (molte) che parlano dell’Europa.
Perché in effetti è tutto un va e vieni fra il noto e l’ignoto, e – soprattutto – un’interminabile e elegantissima chiacchiera su come un europeo si comporta guardando i tropici. Per dire: “In fin dei conti, sono prigioniero di un’alternativa: da una parte il viaggiatore antico, confrontato a un prodigioso spettacolo di cui tutto o quasi gli sfuggiva – peggio ancora ispirava grugniti e disgusto; dall’altra il viaggiatore moderno, a correr dietro alle vestigia di una realtà scomparsa.”

Insomma, Tristi Tropici è soprattutto un libro sul guardare, sul vedere e sull’ascoltare a partire da quello che si è e a partire da dove si viene.

Da un paio d’anni lavoro un po’ con una rivista internazionale che si definisce “europea”. Quando lo dico in giro aggiungo sempre che ciò nonostante quando sento la parola Europa metto mano alla pistola, e che quel che ci sarebbe da capire è proprio perché quella parola che per i miei direttori un po’ più grandi di me era un sogno a me non può non evocare tante, tante cose sbagliate. O almeno venute male.

Mi trascino dietro da un po’ il sacchetto con i tristi tropici e a un certo punto mi è venuto in mente di fare quello che fanno le persone della mia età quando non riescono a cavare granché da un progetto ambizioso e vago a cui tengono molto: un blog, più o meno.

E’ che, tra le altre cose, l’Europa – quando non ci fa grugnire e non ci disgusta – non ci interessa anche perché crediamo di conoscerla. Crediamo che non ci sia niente da scoprirvi. Perché c’è la globalizzazione, perché siamo un po’ tutti sulla stessa barca o perché abbiamo fatto l’Erasmus e abbiamo visto che in fondo ci divertiamo un po’ tutti allo stesso modo. Forse, mi sono detto, vale la pena di farsi un giro nel vecchio continente cercando di guardarlo come se fosse un continente tropicale.

Diciamo che più che un blog questa cosa vorrebbe essere una sorta di reportage a puntate che parla dei luoghi luoghi, degli immaginari, delle storie che si raccontano e nel limite del possibile aldilà di quelle che ci raccontiamo. Un viaggio che sarà soprattutto “sur le terrain”, quindi spostandosi proprio, ma anche un viaggio fatto in altri modi, che vedrete.

Si comincia la settimana prossima.

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