il bureau - Offrire sigarette al camaleonte. L’Italia e il colonialismo 4

di Tommaso Melilli

Tra le altre cose, in Italia, si ha un problema col colonialismo.
Piccola antologia estratta dallo scatolone dimenticato delle fotografie dell’italianità esotica.

Uno: nel ‘46, al referendum sulla monarchia, avrebbero dovuto votare anche gli Italiani d’Africa, cioè quelli residenti in Libia, che tecnicamente rimase “Impero” fino al ‘47. Si disse che, come per il Friuli e per il Sud-Tirolo, c’erano dei problemi organizzativi, e che quei cittadini avrebbero votato in seguito. Com’è noto, ci furono altri problemi nei giorni successivi al referendum, e ci si dimenticò dell’Impero.

Due: l’estate scorsa, molti lo ricorderanno, nel piccolo comune laziale di Affile fu inaugurato un sacrario dedicato alla memoria di Rodolfo Graziani, già Ministro della Difesa, Viceré d’Etiopia e probabilmente uno dei più scriteriati e spettacolari criminali di guerra della storia europea del ventesimo secolo. Scudi si levarono, ci furono proteste, ma scorrendo un po’ il dossier de presse di quei giorni, ci si accorge che l’indignazione era soprattutto dovuta al fatto che si consacrava un importante gerarca fascista come, cito il sindaco del paesello, “un esempio per i giovani”. Intollerabile che Graziani fosse fascista, non che fosse cacciatore di leoni. Nell’immaginario popolare (si fa per dire), l’unica occorrenza del Viceré si deve a Franco Battiato (“Lo sai, che quell’idiota di Graziani farà una brutta fine”). Inutile dire che non fece esattamente, buon per lui, una brutta fine: nell’immediato dopoguerra fu accusato di un certo numero di nefandezze, per la metà delle quali non si riuscì nemmeno a farlo processare (complice il Ministero degli Esteri nostrano e, ahimè, repubblicano), lo condannarono comunque a diciannove anni, e scontò quattro mesi; l’MSI, per non farsi mancar nulla, lo nominò nel ‘52 presidente onorario.

Si potrebbe continuare, per esempio osservando che le corrispondenze di Malaparte in Etiopia a dorso di cammello sono in Francia un best-seller e addirittura pubblicate in edizione tascabile, e da noi praticamente inedite. O ancora si potrebbe ricordare il gioioso quadretto di Berlusconi che restituisce nel 2002 la famosa Venere di Cirene a un occhialuto e gongolante Gheddafi: praticamente l’unico atto che somigli vagamente a un’ammissione delle nostre colpe coloniali. Tra l’altro si arrabbiarono tutti, dicendo che allora i francesi ci dovevano restituire la Gioconda. Che volete, colonialismo e schizofrenia.

Comunque non era di questo che volevo parlare.
Pochi mesi fa è uscito un libro, co-edito da Humboldt Books e Quodlibet, in cui Vincenzo Latronico e Armin Linke presentano, corredati da una serie di altri materiali, quello che hanno portato a casa dal loro viaggio in Etiopia. Inutile dire che non è un obelisco. Però è bello, nel senso che è un bel volume, e s’intitola Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia. I nostri sono andati in Etiopia sapendo quello che cercavano, cioè se stessi. O almeno la propria immagine. Linke, artista e fotografo, cerca epifanie dell’architettura industriale in Africa; Latronico, che è classe ‘84, cerca la storia della sua famiglia, cerca una ferrovia che gli italiani iniziarono (quelli delle “grandi opere”) e che non è mai stata finita. Cerca degli archivi, dei documenti, e non trova quasi nulla. Più in generale c’è un giovane italiano di oggi che va nelle ex-colonie e non resiste a cercare un’italianità esotica, che non cerca di non stupirsi nel vedere la propria immagine riflessa in acque sconosciute.

Ecco com’è riassunto il problemino italiano con le colonie: “In Italia non parliamo di colonialismo; non lo studiamo a scuola; non lo associamo a giornate del ricordo, a monumenti, a musei; non abbiamo neppure cominciato il percorso di autoanalisi della decolonizzazione. Ma questo perché, in fondo, non ci riteniamo dei veri colonizzatori: sarà la convinzione, consolatoria e falsa, che sia stato in fondo poca cosa rispetto a quello di altri paesi europei; sarà l’illusione, comoda e falsa, che la nostra inettitudine bellica ci abbia impedito di commettere atti poi così gravi; sarà la coda lunga dell’apparato fascista che ci ha impedito elaborazioni collettive delle colpe. Ad ogni modo, credo, una decolonizzazione italiana non c’è stata, almeno non per me – e la cosa è stata, a tratti, drammaticamente evidente e paradossale, e imbarazzante, per noi in Etiopia.”
Narciso nelle colonie è forse uno dei migliori esempi italiani (e forse non solo) di un certo tipo di reportage europeo tutto nuovo: è un reportage che fa i conti col declino del proprio continente ma lo fa con una certa serenità, che non teme il fascino dell’esotico perché l’esotico ben fatto e preso a giusta distanza è ancora romanzesco e rende una storia affascinante.

Nelle prime pagine Latronico racconta la scelta delle fotografie da includere nel volume, ci dice del suo imbarazzo davanti alle decine e decine di cliché, e confessa: “Non sono molto raffinato […] le foto che mi piacciono sono tutte di paesaggi drammatici, o donne che lavorano al mercato, insomma, cose così, un po’ pittoresche”; risposta di Linke: “Sai, forse non mi interessa evitare il pittoresco”.
Questo racconto con figure (in cui ci sono molte altre cose che non sto qui a riassumere), prima ancora dei meriti letterari (o forse grazie ad essi), ha un merito politico: ci si potrebbe aspettare, oggi, che finalmente il processo di decolonizzazione cominci, con la storia, con la geografia, con l’elaborazione delle colpe. Solo che sarebbe troppo tardi, arriveremmo al post-colonialismo proprio nel momento in cui il post-colonialismo europeo diventa la parodia di se stesso; nel peggiore dei casi, come in Francia, somiglia ormai al bilancino culturale di una colpa politica. Sarebbe abbastanza paradossale inventarsi ora una retorica buonista sulle nostre infelici scorribande coloniali, proprio ora che si è capito quanto possa essere tragico, in questi casi, andarci coi piedi di piombo.

Ecco, no. Linke e Latronico ci dicono chiaro e tondo che sono partiti cercando qualcosa di più o meno stereotipato, si guardano bene dal dissimularlo, e sono tornati con delle idee assai diverse, non necessariamente più chiare. Sono i nipoti e pronipoti dei colonizzatori e non cercano di nasconderlo, se ne vergognano e parlano della loro vergogna, non vogliono mostrarsi più sensibili, delicati e politicamente raffinati dei loro trisavoli; fanno quello che può fare un invasore che non ha responsabilità alcuna ma che comunque si sente colpevole: offrono una sigaretta a un bambino coi pantaloncini logori.

Latronico e Linke fanno la stessa cosa che faceva Ennio Flaiano alla fine degli anni Quaranta, nell’unico grande romanzo coloniale italiano, Tempo di uccidere. Impotenti, come Flaiano, offrono sigarette al bambino – non c’è gesto che meglio caratterizzi l’immaginario coloniale. Solo che il bambino non è mai quello che ti aspetti, ti sorprende, si trasforma, non lo afferri, non lo capisci e non lo capirai. E tu invasore non puoi fare altro che osservare, e nel migliore dei casi cercare di spiegare cosa provi, e continuare, come in loop, a offrire sigarette al camaleonte.

 

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