IL MITO DEI DATI

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Tommaso Matano

 Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città.

 

“Nel gergo tecnico l’espressione ‘il dato’ porta con sé un impegno teorico sostanziale ed è perfettamente possibile negare vi siano ‘dati’ o che qualcosa sia ‘dato’, in questa accezione, senza con ciò cadere in contraddizione.”

Wilfrid Sellars, Empirismo e filosofia della mente

 

Si consideri il seguente sondaggio: “Lei mente alle domande dei sondaggi?”.

Indipendentemente dalle risposte degli intervistati, si intrasentirebbe l’eco del celebre paradosso di Epimenide: per la proposizione “Sto dicendo il falso” è logicamente impossibile (secondo la logica binaria) stabilire se sia vera o falsa.

Immaginiamo che dopo aver letto le risposte degli intervistati alla prima domanda, ci chiedessero: “Lei ha fiducia nei sondaggi?”. A questo punto ci risulterebbe difficile rispondere con serenità.

L’autorità dei sondaggi sembra garantita, nella percezione comune, dal fatto che essi forniscono dati.

Nell’economia delle attività umane i dati rappresentano elementi certi della conoscenza.
Espressi perlopiù da numeri, i dati parlano la lingua di quelle che Galilei e Locke chiamavano le qualità primarie degli oggetti.
Commensurabili, oggettivi, condivisibili, i dati fondano i nostri sistemi di conoscenza.
La scienza e la filosofia non si sono arrese di fronte all’efficace paradigma della matematizzazione della natura, e hanno cercato di scavare in profondità nella presunta certezza dei dati.
Nonostante le varie crisi delle scienze, gli anarchismi epistemologici, e i dibattiti analitici sullo statuto della conoscenza, il senso comune sembra non poter fare a meno della rassicurante forza dei numeri.
Strumento di persuasione per eccellenza, i dati fanno presa sulle persone in virtù della loro inattaccabilità. Mentre il pensiero scientifico e filosofico si avvitano nelle più complesse disamine della nozione di fatto, di certezza, di esattezza, la società mastica fino al mal di denti le più svariate insalate di numeri e statistiche.
Non derivati da altro che dall’indagine che li ottiene, i dati ci vengono donati dall’alto, offerti alla nostra conoscenza come innegabili verità.
Secondo la banale dicotomia che alimenta il dibattito odierno, per cui esisterebbero da un lato i fatti, e dall’altro le opinioni, i dati sembrerebbero essere la cifra dell’inconfutabilità.
Le cose stanno proprio così?
Un classico dei talk show politici è il momento in cui qualcuno, rivolgendosi a un interlocutore,  pronuncia la fatidica frase: “Io non so dove ha preso questi dati” (espressione che peraltro ne inficia la validità preservandone l’oggettività).
Negando ciò che è convocato nel discorso proprio in virtù della sua innegabilità, la discussione si ritorce in una spirale contraddittoria. Chiamati in causa solo per corroborare le proprie tesi, nei dibattiti i dati si relativizzano, assumono un significato che li deoggettivizza per affidarli al senso più generale dell’argomentazione in cui vengono inseriti. Decontestualizzati, annunciati profeticamente, spesso senza fonte, come sommario strumento d’autorità, i dati servono a rendere il discorso immediatamente comprensibile.
Mentre reclamano l’autotrasparenza tipica dei fatti, i dati si ammantano della veste dell’opinione.

Il caso dei sondaggi è il più eclatante perché i sondaggi offrono informazioni in merito alle credenze e alle intenzioni degli intervistati. I sondaggi sfornano numeri, ma sono numeri che riguardano le opinioni delle persone. Essi non fanno presa grazie a un appurato valore epistemologico, bensì perché non si può negare che ci diano informazioni in linea di massima attendibili. Anche quando i dati dei sondaggi vengono sconfessati dalla realtà, la loro autorità resta comunque in qualche modo intatta.
Il punto è che i sondaggi richiedono una metodologia piuttosto precisa per ottenere un grado accettabile di aderenza alla realtà.
Essi dovrebbero essere, a rigore, complessi strumenti maneggiati da esperti che sfornano risultati abbastanza fallibili.
Invece oggi i sondaggi, oggetto di continue contestazioni, sfornano risultati “di parte”, percepibili secondo un’alternativa radicale: o ineffabili e rappresentativi della realtà o manipolati per motivi politici.
Di quali dati possiamo allora fidarci, cosa è scienza e cosa propaganda in quei numeri che ogni giorno leggiamo e ascoltiamo? Ma soprattutto, se esiste un tale grado di confusione e mistificazione dei dati, perché non riusciamo a farne a meno?

“Sulla proposizione matematica è stato impresso il marchio dell’incontestabilità”, scriveva Wittgenstein.
La logica del dato nell’immediatezza e nella velocità della discussione contemporanea funziona in virtù della sua intuitività, ma fa presa sull’uditorio soltanto grazie ad una comparazione, ad un raffronto, cioè solo rendendo il nudo dato comprensibile. I dati devono essere formalizzati in rapporto ad altri momenti storici o ad altri luoghi geografici, altrimenti rischiano di perdere la propria sensatezza. Non solo, la sovrapproduzione di dati cui si assiste oggi ottiene l’effetto di mistificarne il valore chiarificatore, confondendo ad esempio gli ordini di grandezza.
I dati sono chiamati a corroborare l’autorevolezza della propria tesi perché danno l’impressione che chi li pronuncia sia padrone dell’argomento.
Se sai i numeri, hai studiato. Come a scuola, con le date all’interrogazione di storia.
Poiché questa istanza si coniuga con un diffuso sentimento di anti-intellettualismo e con il rifiuto delle autorità in virtù del livellamento dell’importanza delle opinioni (“uno vale uno”), l’effetto è che tutti possono avere accesso ai numeri e ognuno può dire i suoi. In realtà i dati richiederebbero una complessa disamina per essere colti nel proprio reale valore, disamina che, come si intuisce facilmente, i tempi e il livello del dibattito odierno non consentono.
Il miscuglio esplosivo di queste tendenze contrastanti tra loro, cioè l’autorevolezza dei dati in quanto oggetti di scienza e la faziosità dei dati in quanto frutto di opinioni di pari valore, crea un garbuglio in cui nessuno capisce niente, ognuno si fida solo delle sue fonti e la comunicazione si interrompe.
Lo strumento che massimamente si presta alla dimensione intersoggettiva della condivisione, il numero, finisce per mandare in corto circuito il canale comunicativo.

La folk psychology non può fare a meno dei dati perché questi ci riconciliano con la realtà, con un’idea sorpassata ma rassicurante di conoscenza: esiste uno strumento certo e diretto che ci connette con gli oggetti e i fenomeni del mondo che stanno tutto intorno a noi.
I dati ci offrono certezze.
Assiomatici, conclusivi, puntuali, i dati offrono risposte, non punti di vista. È per questo che ci piacciono.
Eppure esiste oggi un diffuso sentimento di diffidenza nei confronti di ciò che è “dato”, una tendenza a mettere tutto in discussione, per fare un passo indietro, ritornare all’originaria verità occultata dalle strutture che hanno dominato fino a oggi. Ci si aspetterebbe da questo atteggiamento decostruzionista un invito a rinunciare ai numeri, a denunciarne la manovrabilità, l’inattendibilità.
Ciò non avviene. Si dice che i dati sono sbagliati opponendo altri dati, non sollevando dubbi sulla sensatezza del ricorso al dato in sé.

Alla certezza non si può rinunciare.

Come esser certi che queste con cui digito lettere sulla tastiera siano le mie mani, come esser certi che il sole domattina sorgerà o come esser certi che quella qui sotto sia l’immagine di un’anatra.

Anche se forse si tratta di una lepre.

 

L’immagine pluristabile anatra-coniglio compare in Fact and Fable in Psychology di Joseph Jastrow ma è Ludwig Wittgenstein a renderla celebre con le Ricerche filosofiche.

 

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