La disumanità dell’arte

La disumanità dell’arte

(foto di Sofia Minetto)


di Paolo Gervasi

La confessione della signora Olga Dogaru, che ha rivelato di aver bruciato una decina di capolavori di arte contemporanea rubati dal figlio al Kunsthal di Rotterdam, ha suscitato sconcerto nel mondo della cultura, e un’indignazione metabolizzata a fatica dall’ironia di chi ha provato a ricondurre l’episodio alla fenomenologia del “mammismo”.

Se si riesce a mettere tra parentesi il dolore per i capolavori perduti, tuttavia, questa storia può offrire l’occasione di riformulare una serie di domande che hanno tormentato a lungo gli artisti, i critici, i filosofi nel corso della modernità: che rapporto c’è tra l’arte e la vita? Che significato ha l’arte per le persone, per la loro esistenza individuale; in che modo il presunto “valore” dell’arte si ripercuote sulla nuda vita degli individui? I quadri, gli oggetti d’arte, sono entrati nella vita di Olga Dogaru e di suo figlio come una refurtiva. Avevano un preciso significato empirico: erano una questione di vita e di morte, ma non in senso metaforico o spirituale. Il loro rapporto vitale con quegli oggetti si è consumato prima nel rubarli, poi nel distruggerli.

Nel 1874 Friedrich Nietzsche si interrogava Sull’utilità e il danno della storia per la vita: conoscere la storia è davvero utile per condurre e compiere l’esistenza? Il sapere è un’energia vitale propulsiva, oppure un peso morto che con la sua ingombrante e ricattatoria presenza blocca lo sviluppo individuale, e le sue facoltà creative? La domanda di Nietzsche, trasportata sul terreno artistico, ha conosciuto un’eco prolungata e inquietante nel corso del Novecento. Gli artisti e gli scrittori sono stati costantemente assediati dal dubbio che l’arte fosse un surrogato della vita, il sintomo di un’insufficienza, il prodotto di una malattia. Si scrive quando la vita non basta, diceva Pessoa. E ancora piú radicalmente: quando c’è l’arte, non c’è piú la vita; l’arte cancella la realtà, la sovrascrive. Nel caso dei quadri, la blocca: la sottrae al tempo. Olga Dogaru, con il suo rogo, ci ha ricordato che in presenza della vita, delle piú immediate e stringenti esigenze vitali, l’arte non c’è piú, viene distrutta. Provocatoriamente (e sfidando il senso del ridicolo) si potrebbe dire che quella di Olga Dogaru è stata una performance: una delle tante, piú o meno cialtronesche, pensate per denunciare che la funzione dell’arte non si esaurisce nella conservazione (appunto) delle opere, esiliate nelle stanze di un museo, a temperatura controllata.

L’indignazione dei conservatori (appunto) è comprensibile: ma non basta. Non basta affermare il principio sempre piú indimostrabile che l’arte è importante, che va conservata. L’unica possibile tradizione è un continuo tradimento, una riscrittura permanente del passato. È necessario tenere vivo il legame conflittuale dell’arte con l’esistenza, la sua facoltà di farci specchiare in ciò che non esiste, nel mondo come non è, come non siamo capaci di vederlo. Il mondo di Olga e di suo figlio non è quello in cui l’arte va conservata.
Olga è accusata di aver commesso un crimine contro l’umanità: accusa smisurata e vagamente mostruosa, che contiene un paradosso sinistro: senza scadere nel sentimentalismo, come si può dire che non sia umano il gesto protettivo e materno compiuto da Olga? L’umanità offesa è meglio rappresentata da quegli oggetti in cui la vita è stata bloccata, in cui l’esistenza si è rappresa, o dalla vicenda del furto, della fuga, del tentativo di salvare la vita del figlio? Che cos’è umano? È piú umano il volto del ladro braccato, o quello deformato di Arlecchino, ritratto da Picasso? Non è l’arte, almeno quella contemporanea, una disumanizzazione del reale?

Se c’è davvero un crimine contro l’umanità, in questa storia, forse andrebbe collocato a monte: nei meccanismi di mercato che fanno del quadro un oggetto investito da uno sconsiderato, incommensurabile valore economico. Sotto accusa dovrebbe essere messo l’intero sistema dell’arte contemporanea, una macchina che produce profitti “a vuoto”, autoalimentandosi e autodeterminando valori di mercato del tutto sproporzionati. E attenzione: si tratta di un crimine non per il noioso equivoco secondo il quale la cultura non dovrebbe avere rapporti con l’economia. Il sistema dell’arte contemporanea rappresenta una dolosa finanziarizzazione della legittima, e necessaria, economia della cultura: è un sistema speculativo che spezza ogni legame tra le valutazioni economiche e la possibilità di determinare un valore estetico, inquinando e confondendo la funzione simbolica degli oggetti d’arte.

C’è chi ipotizza che Olga stia mentendo, e che i quadri potrebbero essere al sicuro nella casa del miliardario che ha commissionato il furto. Ecco, questo sarebbe il vero crimine contro l’umanità. Se invece la signora Olga ha davvero infornato quei capolavori, li ha almeno sottratti al loro destino peggiore, alla loro definitiva privatizzazione, e ci ha consegnato un’esperienza (dolorosissima, certo) che rinnova la nostra cognizione del rapporto tra l’arte e la vita: l’una o l’altra è sempre destinata a “bruciare”, l’una si consuma sempre nell’altra.

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1 Comment

  1. DENIS PEDRANZINI luglio 30, 2013 Reply

    Mi piacerebbe saper scrivere così bene. Complimenti!

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