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di Nicola Cappelletti

Lasciare Roma è sempre facile se si decolla. È difficile, se vogliamo, in senso metaforico, al limite politico. Ma oggi, con semplicità, decollo.
E comincia l’Italia dall’alto, partendo dal mezzo. I pochi voli interni rimasti attivi permettono di osservare sempre dal finestrino, non si toccano mai le nuvole o quote assurde. E questo 29 agosto 2021 mi mostra quello che da terra sospettavo: abbiamo finito lo spazio, i centimetri pro-capite. Abbiamo reso il nostro paese claustrofobico e grave, infine, anche allo sguardo. A pensarci bene, una ironica real politik. È quasi notte e le luci disegnano bene il paesaggio. Fin da bambino mi piaceva osservare le immagini dal cielo, riconoscendo le città, i confini, le zone disabitate.

Un tempo era facile individuare le città, le autostrade, le zone disabitate. Ma oggi, salendo verso il cielo, il grande disegno si svela deciso.

Le luci si fanno più piccole. Immobili alcune, frenetiche quelle lungo le strade e le arterie incatramate del paese. Firenze, Bologna e Venezia appaiono, una dopo l’altra, ancora riconoscibili. E a ogni grumo luce corrisponde un nugolo di esseri italici altrettanto immobili, frenetici e incatramati, allineati nella loro vita a testa bassa, alla conquista testarda di uno spazio vitale che non c’è più.

E c’è stato un momento in cui la tendenza è diventata irreversibile, in cui abbiamo barattato silenti lo spazio, un futuro auspicabile, o semplicemente scelte prive di vincoli, in cambio della facilità. Abbiamo accettato di avere tutto e di cedere tutto. Siamo entrati anche noi negli outlet, cedendo a prezzi stracciati tutto quello che ci rimaneva. Siamo stati ben educati a fare affari nei grandi calderoni in svendita, tanto da iniziare inesorabilmente a svendere parti di noi. Outlet del cibo, dei mobili, dei vestiti, dei sanitari, dei mattoni per le Nuove Case Popolari. L’Outlet degli Studi d’Italia, delle menti e dei corpi, l’Outlet dei sogni usati.

Nelle mie orecchie suonano i file digitali di un doppio cd di una decina di anni fa, quando con logica da magazzino generale si tentava di vendere musica con etichette forzate e generaliste, ottenendo il triplice effetto di non venderla, declassarla e sopravvalutarla a tempo stesso. Curioso notare quanti di quelli che allora portavano eroici alto il drappo del nuovo cantautorato poi ci abbiano voltato le spalle.

Curioso capire quanti poi in quel guazzabuglio di frasi, stili e generi esprimevano, come voci dei propri anni zero, la stessa facilità di accesso a contenuti e cliché svuotati di un Negozio che Svende grandi Marche. Il lusso che ti puoi permettere.

Appena mezz’ora dopo il decollo le luci viste dal cielo disegnano una grande, gigantesca e articolata scritta Outlet a forma di stivale. Ha sostituito la morfologia del nostro paese negli anni. Ci sembrava casuale e abusiva, l’edilizia. Era un enorme piano regolatore che modificando il nostro spazio esterno è riuscito inesorabile a plasmare il nostro tempo interiore.

E mentre gli applausi all’atterraggio sanciscono e confermano il nostro trionfo, la nostra felicità, e il nostro orgoglio di sopravvissuti quotidiani, mi ricordo che in realtà tutto questo si poteva prevedere. Forse prima di sentirsi perduti e accanirsi con tutti gli altri, il sabato mattina, alle porte dei centri commerciali.

Ma oggi, sopravvissuti all’Euro e alla Nuova Lira, svincolati dai decenni in cui potevamo essere qualunque cosa per poi restare immobili per le troppe scelte, cosa vogliamo di più, se abbiamo tutto? Tutto il presente e tutto il futuro, a prezzi stracciati. Ora possiamo avere tutto. Che senso ha più sbattersi per esserlo?

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