CHE FINE HA FATTO LA CLASSE CREATIVA?

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di Paolo Gervasi

 

Quando nel 2002 Richard Florida, economista e sociologo statunitense, utilizza il concetto di “classe creativa”, introduce un elemento di novità dirompente nelle strategie di descrizione della società. La nozione tipicamente marxiana di “classe”, infatti, per la prima volta viene sganciata dal possesso di un capitale materiale e definita in base al possesso di un capitale simbolico e culturale. All’inizio del nuovo millennio i “creativi”, i lavoratori della conoscenza, rappresentano una vera e propria classe sociale, emergente e già decisiva per la ristrutturazione post-fordista dell’economia, in quanto “produttori” di beni immateriali. Mentre l’automatizzazione del lavoro sembra destinata a svuotare i luoghi tradizionali di formazione delle classi lavoratrici, la creatività e l’elaborazione concettuale dei processi di innovazione si rivelano “asset” fondamentali per lo sviluppo economico e per la creazione della ricchezza. Il lavoro, e quindi la produzione del plusvalore, non si identificano piú con la trasformazione della materia. Si trasferiscono nei luoghi di costruzione della conoscenza.

 

Due anni prima della pubblicazione del libro di Florida, nel marzo del 2000, una seduta straordinaria del consiglio d’Europa mette a punto quella che avrebbe preso il nome di Strategia di Lisbona. L’obiettivo dichiarato ed esplicito della Strategia di Lisbona è quello di rendere l’Europa una avanzata e dinamica “economia della conoscenza”. Una società nella quale sviluppo economico, occupazione e relazioni sociali possano incardinarsi su un potenziamento del terziario avanzato, e di tutte le professioni legate al “cognitariato”.  Le infrastrutture della comunicazione e dell’informazione avrebbero dovuto diventare il sistema nervoso della società. E i saperi avrebbero dovuto trovare canali di trasferimento dalla dimensione simbolica a quella concreta, attuando una contaminazione virtuosa tra il materiale e l’immaginario, tra i processi culturali e le articolazioni del quotidiano.

 

La Strategia di Lisbona è un caso eclatante e piuttosto raro di convergenza immediata tra programmazione politico-economica e rappresentazioni teoriche dei mutamenti sociali. L’idea di poter strutturare una economia della conoscenza, infatti, è una sorta di “traduzione” operativa delle “visioni” filosofiche e sociologiche che avevano chiuso il Ventesimo secolo. Analisi come quelle che proclamavano la definitiva virtualizzazione dell’esperienza, la nascita della “società liquida”, la crescita esponenziale di una intelligenza collettiva favorita dallo sviluppo tecnologico e dalla ristrutturazione in senso “reticolare” dei gruppi umani e della loro attività, rendevano plausibile l’immaginazione di un sistema produttivo alimentato dalla conoscenza.

 

A smentire l’euforia “progressiva” delle speculazioni filosofiche, tuttavia, arriva presto il trauma dell’11 settembre 2001 e la conseguente tensione psicologica e cognitiva determinata dal clima della guerra globale. Seppure amplificati da una  debordante e “virtualizzante” rappresentazione mediale, gli eventi post-2001 hanno bruscamente richiamato il mondo occidentale alla necessità di considerare la consistenza materiale e “resistente” della realtà. La guerra, il terrorismo, e di seguito la crisi economica scaturita dal nuovo scenario geopolitico hanno ricordato a tutti che l’immaginario ha sempre bisogno di incarnarsi, di passare attraverso il corpo del reale, che inevitabilmente lo deforma e lo sfigura. Di fronte alla “scoperta” che anche nella società delle reti la realtà oppone all’immaginazione la sua dura concretezza, le potenzialità economiche della creatività e della conoscenza sono state richiamate a fare i conti con le proprie basi materiali. Marx si è preso una tragica  rivincita sui teorici della smaterializzazione, e il rapporto tra struttura e sovrastruttura sembra essere stato “raddrizzato” dal ritorno prepotente dei bisogni primari sulla scena pubblica.

 

In realtà , la mutazione intuita da Florida non è piú reversibile, e la classe operaia novecentesca non è tornata e non tornerà protagonista della storia. Seppure tra difficoltà e contraddizioni, a livello comunitario la programmazione politico-economica legata alla creatività e alla conoscenza non è del tutto tramontata. Nonostante le battute d’arresto del progetto originario, la strategia europea di investimento sulla conoscenza, riformulata e aggiornata, è stata rilanciata, per esempio attraverso gli investimenti sulla cultura e sull’innovazione previsti dal programma Horizon 2020. Piú problematica semmai è la ricezione di queste direttive da parte dei singoli Stati europei. Perché è proprio a livello delle comunità nazionali, e delle scelte politiche che ancora competono ai governi “locali”, che il trauma della crisi economica ha generato un nuovo disastroso “realismo”, responsabile di drammatici disinvestimenti, sia materiali che simbolici, nell’ambito delle politiche culturali e della conoscenza. La politica nazionale, particolarmente in Italia, ha sintonizzato l’immaginario comune su una sfiducia e una diffidenza sistematiche, del resto molto radicate nel sentire nazionale, nei confronti delle attività “sovrastrutturali”. “Con la cultura non si mangia”, è la celebre sentenza di un ministro italiano, che ha sintetizzato impeccabilmente una convinzione diffusa, non solo nella sua parte politica.

 

Tuttavia la necessità di perseverare nel tentativo di iniettare conoscenza nell’economia resta una priorità a livello globale. La retorica della creatività ha resistito al ritorno del primario, e si è affermata anzi come discorso ubiquo, pervasivo: il creativo è una figura antropologica tipica della contemporaneità, investita anche dalla banalizzazione del luogo comune. La classe creativa, nonostante tutto, esiste: non vive nei loft newyorchesi come quella rappresentata da Florida, è una classe precarizzata, diffusa, eterogenea, frammentata, ma costituisce una risorsa fondamentale per lo sviluppo e per la crescita, non solo dal punto di vista economico. La “creatività sociale” rappresenta forse, in un momento storico cosí povero di immaginazione delle alternative, l’unico strumento di cambiamento possibile. Dispiacerà probabilmente ai custodi dell’ortodossia, ma si potrebbe pensare una piccola correzione al celebre “slogan” (degno di un creativo!) di Marx: creativi di tutto il mondo….

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