L’ECOSISTEMA STARTUP ITALIANO

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di Marco Viviani

Se c’è un termine che nel 2013 è stato ampiamente abusato questo è senza dubbio startup, la definizione di nuova impresa innovativa sulla quale si sono caricate tutte le aspettative politiche di creare una classe imprenditoriale/creativa in Italia.

Il primo passo di quello che oggi può definirsi ecosistema italiano delle startup è stato il robusto lavoro di Corrado Passera, che da ministro del governo Monti diede vita a una task force utilizzando al meglio le capacità di alcuni giovani dirigenti del MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) come Alessandro Fusacchia (oggi con la Bonino alla Farnesina) e Stefano Firpo. Girando tra incubatori e startup events tra la primavera e l’estate del 2012 , la task force concepì il progetto Restart Italia, che conteneva in nuce tutti i propositi poi adottati nella legge 221 approvata il giorno di Santa Lucia, una delle ultime leggi approvate dal Parlamento che aveva in pratica già sfiduciato il governo in vista delle elezioni di febbraio.

Con l’approvazione dell’agenda digitale entrava in circolo anche il progetto sulle startup innovative che ha definito questo tipo di impresa (una società di capitali di diritto, costituita anche in forma cooperativa che si occupa di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico), garantito agevolazioni fiscali e una serie di esenzioni, nonché deroghe al diritto societario e una disciplina particolare nei rapporti di lavoro per abbattere gli oneri di avvio, e infine disegnato le prerogative per accedere a questi vantaggi: la società deve avere meno di 4 anni di vita, sede in Italia, un bilancio inferiore a 5 milioni di euro, non distribuire utili, non essere frutto della scissione di un’altra società e almeno uno tra gli ultimi tre requisiti: almeno il 15% di investimento in ricerca, un terzo della forza lavoro composta da dottorandi o dottori di ricerca, oppure essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno un brevetto.

Al 15 gennaio 2014 le startup innovative registrate presso le camere di commercio sono 1525, a giugno dell’anno scorso erano 830. Guardando alle loro caratteristiche, spiccano com’è ovvio i servizi, che includono la produzione di software, la consulenza informatica, ricerca e sviluppo. L’ecosistema cresce, vale il 6% del PIL, e con esso aumentano i venture capital, gli incubatori, i parchi tecnologici, gli spazi di coworking, tutte quelle realtà sostegno integrante del sistema che a sua volta rappresenta la punta di diamante di un settore, quello della creatività, abitato da 2 milioni di persone.

 Si potrebbe pensare, considerando questi dati, che allora l’Italia è una startup  nation. Le cose però non stanno così. Fare innovazione in Italia è complicato, le startup italiane soffrono burocrazia e limiti economici, quelle internazionali si scontrano con lobby e corporativismi allergici ai cambiamenti tecnologici che spesso hanno il brutto vizio di modificare velocemente il mercato e quindi anche i rapporti di lavoro e di forza contrattuale. Lo va dicendo da tempo Riccardo Donadon, il presidente di Italia Startup, associazione che raggruppa in modo istituzionale i protagonisti dell’ecosistema: l’Italia non è una startup nation, pensare di imitare Israele o la Silicon Valley è fuorviante.

Molto è stato fatto nella costituzione delle premesse di un ecosistema: in Italia non mancano le risorse umane, si è proceduto a una maggiore sveltezza burocratica e l’ambiente è ben predisposto (basta vedere quante startup competition esistono nel nostro paese). Al netto delle grandi startup-area nel mondo, caratterizzate da infrastrutture e scelte politiche forti che non si possono improvvisare dall’oggi al domani,  mancano tra gli elementi basilari per un corretto sviluppo di un’idea di business solo (si fa per dire) più risorse finanziarie e competitività con l’estero. A questi ultimi due aspetti si è pensato con il regolamento sull’equity crowdfunding, il primo al mondo, che norma l’investimento diffuso alle nuove imprese innovative, e col progetto Destinazione Italia, l’evoluzione del metodo startup che guarda all’attrattività dall’estero verso l’Italia. Alcuni articoli del progetto sono passati con decreto urgente lo scorso 23 dicembre, ma è ancora in massima parte da convertire in legge. Entrambi i testi sono stati redatti secondo lo stesso schema aperto che Firpo ha definito come «hacking della pubblica amministrazione»: benchmarking, consultazione pubblica, pubblicazione bozza con margine per le osservazioni e approvazione.

 Cosa manca, allora, all’Italia per poter dire di aver messo sulla punta dell’iceberg nazionale la sua classe più creativa? La risposta è tanto semplice quanto deludente: reperire le competenze, i finanziamenti, partire alla pari con tedeschi e inglesi (al top in Europa) per documenti necessari e accoglienza nel mercato del lavoro, non fa parte della quotidianità di una startup in Italia per la stessa ragione per cui non lo è per tutte le altre aziende. La burocrazia italiana, l’instabilità e mediocrità politica valgono per tutti e le startup non ne sono immuni. L’Europa, da par suo, è un mostro che ignora ogni armonia tra la libera circolazione dei servizi e i singoli regimi normativi e fiscali (ce ne siamo accorti con la famigerata webtax), creando le premesse di una spaventosa concorrenza sleale ai danni soprattutto di paesi come il nostro, storicamente molto dettagliati e restrittivi nella loro legislazione su sicurezza alimentare, titolarità dei servizi di consulenza e molti altri aspetti quotidianamente affrontati delle nuove imprese.

Infine, il nanismo industriale, l’artigianato di qualità un po’ selvatico che è peculiarità assolutamente italiana si sposa a fatica con la natura inevitabilmente cosmopolita di una startup e la sua cultura di innovazione aperta e non micro-competitiva. I progetti più interessanti di startup italiane premiate in tutto il mondo riguardano innovazioni mediche o tecnologie spaziali o industriali, spesso vendute nel giro di due/tre anni alle big company straniere. Una reale ricaduta sull’economia interna può arrivare soltanto da altri settori, in cui già esiste una storia di eccellenza. Gli stessi incubatori se ne stanno accorgendo e stimolano food, fashion, nanotecnologie, turismo, settori nei quali c’è la concreta possibilità di trovare il messianico che sembra perduto: innovare ciò che abbiamo sempre saputo fare meglio degli altri, unendo le competenze di diverse generazioni. Insomma, le startup devono incontrare il made in Italy.

fonti: MISE ; Italia Startup ; Webnews

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