SCIMMIE E POETI

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di Tommaso Matano

Henri Poincaré ha definito la creatività come “la capacità di combinare in modo nuovo elementi preesistenti, per dar luogo a soluzioni inedite”. Creativo è un aggettivo; si dice di persone, processi mentali, esperimenti, soluzioni. Nel tempo, creativo è divenuto anche un sostantivo, che sta ad indicare una professione. E’ creativo il pubblicitario, quello che si occupa di marketing, lo sviluppatore di videogiochi, chi lavora a Google, a volte è creativo un trader. Caratteristica implicita nel caso di scrittori, artisti e registi, per tutti gli altri mestieri la creatività diventa il valore aggiunto, l’arma in più su cui investire e da cui trarre profitto. La creatività è una risorsa: spendibile in tutti gli ambiti, è come una qualità ma anche come un titolo di studio, è qualcosa con cui si nasce, ma che forse si può anche acquisire, distingue l’individuo che la possiede ma contemporaneamente lo include in una certa categoria di persone.

Il talento creativo diviene una capacità, un’abilità, qualcosa che perfino il curriculum può testimoniare. Si costituisce una classe creativa, un insieme di persone che condivide una stessa caratteristica: un’intelligenza qualitativamente connotata. Fenomeno interessante, nell’epoca del quoziente intellettivo e delle intelligenze artificiali, il mondo riscopre il fascino dell’intelligenza che non si può misurare se non attraverso le sue creazioni.

Ecco allora emergere una caratteristica della creatività: di essa si può parlare solo a partire dai prodotti cui dà luogo. Il genio è tale in funzione dell’invenzione, della scoperta. C’è un dato forte di indipendenza del prodotto creativo dalla realtà da cui proviene e nella quale si immerge. Creatività è ciò che produce l’inusitato, ciò che riformula, o aiuta a riformulare le nostre categorie. E’ una forma di disordine. E’ creativo quel che è in qualche modo senza precedenti, Kant l’ha detto con chiarezza: “il genio è il talento che dà la regola all’arte”. La creatività è una gravidanza perenne di idee che cambiano il mondo circostante e influenzano la produzione di idee successive. Ecco dove Poincaré ha colto l’importanza del “contesto”: le soluzioni creative non nascono in una bolla fuori dallo spazio e dal tempo ma consistono in un saper vedere.

Ma come si può normalizzare e costringere nei confini di un mestiere la capacità di offrire soluzioni originali?

Richard Florida, che ha coniato l’espressione classe creativa, invita a considerare il creativo come colui che rompe con la tradizione precedente. E’ un concetto che la filosofia della scienza ha elaborato e discusso ampiamente, nell’ambito della logica della scoperta scientifica, parlando, tra le altre cose, di paradigmi, autorità delle teorie e anarchismo epistemologico. La storia della scienza è un susseguirsi di colpi di fortuna e contingenze politiche e sociali. E’ una guerra di rivoluzioni che si scalzano a vicenda in virtù del mutare delle più svariate condizioni. Ma c’è un fatto che la storia della scienza ci insegna, e cioè che alla fortuna si può dare una spintarella.  Il genio si coltiva, si fa crescere. Le occasioni in cui si manifesta la creatività possono essere stimolate.  Si racconta che Newton abbia scoperto la legge di gravità grazie alla caduta di una mela sulla sua testa, e Archimede la spinta omonima facendo il bagno in una vasca colma d’acqua. Tale fenomeno è detto serendipità: Julius H. Comroe lo definisce con una battuta come “cercare l’ago nel pagliaio e trovarci la figlia del contadino”.

Ciò che uno Stato o un’azienda possono fare per catalizzare la serendipità è preparare un ambiente fecondo: piantare alberi di mele, invitare gli scienziati a fare il bagno. Si dice che negli uffici di Google ci siano tavoli da ping-pong, che i colletti bianchi siano ormai divenuti senza colletto. E’ l’annullamento di una forma obsoleta come spinta alla formulazione di nuovi contenuti. Ma è per ciò stesso anche l’instaurarsi di una nuova forma, il superamento di una tradizione.

Uno slogan a caso: “Bisogna investire sulle persone”. Scuola, università, ricerca, innovazione, parole composte con l’aggettivo smart, nuove tecnologie: la regola è puntare sul talento. L’economia si appropria della creatività, così come fanno anche la finanza e la politica. Il concetto di creatività, tuttavia, continua a declinarsi in un universo di significati che ne rendono sfuggevole il significato. Si può insegnare la creatività? Si può apprendere?

Alla scuola Holden di Alessandro Baricco, per esempio, la risposta consiste nello scindere il mestiere della scrittura dalla caratteristica della creatività. La Holden non è una scuola di “scrittura creativa” ma di “storytelling”, perché la creatività non si può insegnare, ma la narrazione sì.

Forse è vero che non esiste nessuna scrittura creativa, perché come diceva Derrida le parole che usiamo sono sempre prese in prestito. Ma unire insieme quelle parole prese in prestito non è un’attività creativa, nel senso di Poincaré? Non è creativa ogni scrittura, nella misura in cui è una riscrittura di riscritture, e insieme una lettura di letture? Non è in fondo questa la verità che si nasconde dietro la retorica dei discorsi sull’innovazione, dietro la loquela anglofona dei rampanti imprenditori del terziario avanzato, cioè che possedere una biblioteca può aiutare a diventare scrittori?

Fuor di metafora, la classe creativa, per costituirsi, richiede risorse. Ma la “classe creativa” è un coacervo di professioni, un insieme di ambiti ed etiche e processi differenti tra loro. La creatività non è un valore assoluto, ma qualcosa che assume il proprio senso in virtù del campo in cui si applica. La creatività esplode in laboratorio, su una tela, dietro un computer, su un palcoscenico. Ha senso servirsi di un unico concetto per cose tanto diverse, e soprattutto si tratta davvero di qualcosa di nuovo?

La classe creativa si concentra nelle grandi città, in circostanze di crescita economica, fermento culturale e libertà, ed esercita le proprie attività nel settore terziario. Non è quella che un tempo si chiamava borghesia?

Il problema dell’improvviso fervore che accompagna i sostenitori dell’homo ludens è che sembra fare perno su una sostanziale confusione. L’idea che il gioco, questo sistema di (non) regole di cui la creatività si serve, sia un insieme di possibilità che include in sé tutto e niente, è un’idea sfumata che funziona proprio in virtù della sua indefinibilità. Noi tutti siamo nella condizione di considerarci “creativi”, è sufficiente avere un blog, un profilo Flicr, un buon programma di editing video e foto. La creatività diviene un’epidemia: é una condizione per il successo e una qualità autocertificabile. Giordano Bruno, che era creativo per davvero, ammoniva ad essere “poeta di propria musa e non scimia de la musa altrui”. 

Chissà se oggi, di fronte alla mercificazione delle muse, si sarebbe ricreduto, riconoscendo che a volte è meglio essere ottime scimmie che pessimi poeti.

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