diario di una italiana sulle rivolte di istanbul

di Silvia Farina

Parto per Istanbul per lavoro e ho l’occasione di realizzare un mio desiderio: visitare questa città affascinante e ricca di storia, posta a metà fra Europa e Asia, Oriente e Occidente, islamismo e laicità. Non mi aspettavo, però, di trovarmi nel bel mezzo di quella che già in tanti chiamano la Primavera Turca.

È iniziato tutto da Piazza Taksim, cuore pulsante della parte europea della città: al mio arrivo mercoledì 29 maggio ho visto un gruppetto di giovani ambientalisti che occupava Gezi Park per protesta contro il piano del governo di radere al suolo i 600 grandi sicomori del parco per costruire l’ennesimo centro commerciale. Erano giovani, pacifici e festanti, ma la polizia aveva l’ordine di allontanarli dal parco e permettere alle ruspe di entrare, così li ha attaccati violentemente nella notte fra giovedì e venerdì, spruzzando gas lacrimogeni anche dentro le tende in cui dormivano, che poi sono state date alle fiamme. Io ero in un hotel a due passi da Taksim e venerdì mattina alle cinque il gas è entrato anche dalla mia finestra aperta, svegliandomi. Non sapevo cosa fosse, ho chiuso la finestra e ho pensato di aver sognato.

L’uso sproporzionato della forza ha fatto precipitare velocemente la situazione e ha infervorato gli animi di molti cittadini, già contrari alla politica di trasformazione della città in nome di una modernizzazione selvaggia e religiosa allo stesso tempo, per cui ogni 200 metri devono esserci un centro commerciale e una moschea.
La notizia dell’attacco ai manifestanti si è diffusa via social network e dopo poche ore migliaia di persone si sono attivate e sono scese in piazza contro la repressione. Alle 13.30 di venerdì 30 maggio c’erano circa 5.000 persone in Piazza Taksim. Io sono passata da lì proprio in quel momento e ho visto una folla pacifica e silenziosa applaudire, l’atmosfera era tranquilla, mi è sembrato un bell’esempio di pacata manifestazione di dissenso.
Ho proseguito e sono scesa giù nella stazione della metro.

All’improvviso un’enorme ondata di persone in fuga si è riversata lì sotto e insieme alla gente è arrivata anche una nube tossica di gas lacrimogeni e urticanti, bianca, visibile, terribile. Per una decina di minuti ho pensato di soffocare, non riuscivo a respirare, mi lacrimavano gli occhi, avevo conati di vomito, mi bruciava la pelle del viso, del collo, delle braccia. Tutto ciò avveniva in mezzo a migliaia di persone in panico che come me soffrivano, tossivano, non riuscivano a tenere gli occhi aperti, alcuni correvano, altri si accasciavano a terra. Eravamo sottoterra e anche se il primo istinto era di uscire fuori e scappare, non potevamo farlo perché proprio da fuori veniva il gas. Abbiamo proseguito a scendere alla ricerca di un treno per scappare, saltando i cancelli sono finita su una funicolare piena di gente sofferente, fra cui molti che si trovavano lì per caso come me. Ciò che mi ha sconvolto di più sono state le urla strazianti di un bambino di 3-4 anni colpito dai gas e la disperazione della sua mamma che non sapeva come alleviarne le sofferenze.

Mi sembrava incredibile e inaccettabile che per disperdere una folla pacifica la polizia usasse un’arma così invasiva e indiscriminata, gas lacrimogeno e urticante in una piazza che è il cuore della città e nelle scale della metro, colpendo anche turisti, bambini, anziani, lavoratori. Ma ho presto scoperto che si trattava solo dell’inizio. Dopo quest’episodio due flussi continui e opposti hanno interessato Istanbul: da un lato fiumi di persone che da ogni dove sono accorse in piazza per protestare, dall’altro ondate di gas che venivano sparate in tutte le direzioni per disperdere persone disarmate, con lanci anche dall’alto, dagli elicotteri. Dal mio hotel a 100 metri da Taksim avevo un osservatorio privilegiato, perché vedevo i flussi di manifestanti, poliziotti e mezzi andare e venire, le nubi tossiche dei gas che si alzavano oltre i palazzi, sentivo i rumori, le urla, le sirene e soprattutto avevo modo di ascoltare lo staff e il direttore dell’albergo che ha letteralmente preso me e altri ospiti in custodia, informandoci degli sviluppi e traducendo le notizie che apprendevamo dalla tv e dai suoi due telefoni che squillavano continuamente.

Così ho saputo che i due ponti sul Bosforo erano stati chiusi per evitare che dalla parte asiatica della città arrivassero nuovi manifestanti, ma la gente ha superato il blocco e circa 40.000 persone hanno attraversato a piedi il ponte Ataturk, normalmente chiuso ai pedoni, brandendo bandiere turche, mascherine fatte in casa e un misto di rabbia, coraggio e voglia di riscatto nei confronti di un governo autoritario che qui tutti chiamano fascista. “Istanbul è una metropoli multiculturale e cosmopolita, pochi sostengono il governo islamista e conservatore, eletto per la terza volta con più del 50% dei consensi, grazie soprattutto ai voti della popolazione non urbana, conservatrice e profondamente religiosa”, mi spiegava il direttore dell’hotel.

Intanto nella piazza la polizia continuava a inondare i manifestanti con gas e acqua sparata con gli idranti: ormai una piccola protesta ambientalista si era ormai trasformata in una rivolta contro il governo e i suoi metodi repressivi, con scontri e sassaiole.
Per circa due giorni ho visto scene di guerriglia urbana ma anche molta umanità: molti sono accorsi ad aiutare i manifestanti con cibo, bevande e limoni, tanti limoni: ho scoperto sulla mia pelle che il migliore antidoto contro il bruciore è il succo di limone. Mi ha colpito particolarmente una donna anziana, zoppa, lacrimante, evidentemente provata per il gas e i disordini, che si addentrava nella nube tossica per distribuire limoni già tagliati in due, che porgeva alla gente in un sacchetto di plastica pieno di agrumi miracolosi.

Nella mattinata di sabato ormai su tutti i canali e le testate internazionali si parlava di rivolta contro il governo e la situazione si stava scaldando troppo, al punto che il Primo Ministro ha deciso di fare marcia indietro, di chiedere scusa per l’utilizzo spropositato dei gas, incolpando la polizia, che è quindi stata ritirata da Piazza Taksim. Nel pomeriggio di sabato il parco Gezi era finalmente liberato! Ed è iniziata la festa: fino a notte fonda più di centomila persone hanno occupato tutta l’area e il parco Gezi, cantando, ballando, bevendo birra, sorridendo: avevano vinto. Mi sono recata sul posto, finalmente potevo uscire dall’hotel e ho avuto l’impressione che fosse tutto finito, l’aria era ritornata pura, la gente era felice, gli alberi erano salvi!

VIDEO DEI CORI NEL PARCO LIBERATO


Tornata in hotel però mi sono resa conto che la furia dei cittadini contro il governo, scatenatasi nei giorni precedenti, non poteva arrestarsi così all’improvviso. Dalla tv abbiamo appreso che nel frattempo erano esplose rivolte violente in altre zone e in molte altre città, fra cui la capitale Ankara: ancora gas, barricate, atti di vandalismo, sassaiole, cariche della polizia, acqua con l’idrante, feriti, qualche morto, adesso in tutta la Turchia. Intanto il Primo Ministro in tv annunciava di voler andare avanti col pugno duro e che il progetto del centro commerciale non si sarebbe fermato.
Anche domenica le proteste sono andate avanti, l’area intorno a Taksim è ancora occupata, i manifestanti hanno fatto barricate usando gli autobus e i mezzi escavatori del cantiere che avrebbero dovuto distruggere il parco. Ma soprattutto gli scontri sono dilagati ora in tutto il paese.

 

 

 

 

Domenica mattina riesco finalmente a lasciare la zona, ad andare verso l’aeroporto, verso l’Italia, verso casa. Volevo vedere Istanbul, respirare l’aria mediterranea, europea e asiatica insieme. Volevo vedere la moltitudine di culture che da sempre si mescolano nel Bosforo, toccare con mano i contrasti che caratterizzano la società turca, immergermi nella complessità di una Repubblica musulmana che ha fatto della laicità dello Stato una bandiera. Volevo, infine, sentire cosa pensa la gente di un governo democraticamente eletto ma spesso dedito a pratiche autoritarie. Direi che ho visto tutto questo e molto, molto di più.

Dall’aereo guardo le nuvole sotto di me, sono al sicuro, torno a casa. Ma la Primavera Turca è iniziata… Good luck Mr. Erdogan!

 

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