PAURA BLOGGER

di Alessio Dell’Anna

Pare che nel 2012 ci sia ancora chi è convinto che la crisi del giornalismo sia dovuta a un manipolo di blogger che tiene in scacco le grandi testate coi loro siti da strapazzo.

Ho letto un articolo uscito qualche tempo fa su LSDI, peraltro uno dei migliori siti in Italia che tratti di informazione, dove Carlo Gubitosa se la prende, come dice lui, «spassionatamente», con chi scrive gratis solo per il gusto di farsi leggere, addebitando ai blogger, e con toni piuttosto catastrofistici, il crollo del valore della professione del giornalista negli ultimi anni.

«Se ti senti un’ostetrica che sta partorendo il nuovo giornalismo sappi che sei solo un becchino che sta seppellendo quello vecchio»

Io non capisco bene se Gubitosa se la prenda con gli stagisti che pur di lavorare (facciamogliene anche una colpa) quasi non si fanno pagare, coi blogger che scrivono per passione, o chi, ma credo che il diktat sia più o meno questo: se ti piace scrivere non farlo, a meno di non essere assunto, e a peso d’oro, perché se no ai giornalisti, quelli veri, quelli dell’ordine, gli porti via lavoro e fai crollare il loro prezzo di mercato.

Premesso che credo ognuno abbia il diritto di scrivere ciò che vuole, mi sembra che queste affermazioni evidenzino abbastanza bene come il giornalismo digitale venga ancora considerato in Italia. Già, un paese dove fino a ieri i blog erano considerati stampa clandestina e dove c’è stato bisogno di una sentenza per dimostrare che chi fa giornalismo sul web senza avere il tesserino non faccia nessun abuso della professione. Robe che in un paese normale manco verrebbero in mente, e che anziché dimostrare chi ha torto e chi ragione, per il solo fatto di essere finite in tribunale segnano clamorosamente, come qualcuno ha fatto notare, il prima e il dopo l’ignoranza della legge.

Ma di cosa c’è paura? Della concorrenza? Se un blog scriverà stupidaggini o si limiterà a copiare ciò che trova da un’altra parte non interesserà a nessuno, non è di questo che i giornali si devono preoccupare. Se invece sulla Rete ci sono concorrenti che producono valore aggiunto allora è giusto che vadano premiati, anche per tutta la fatica che si fa ad emergere dal vociare indistinto che caratterizza il web. E non parliamo delle forme di remunerazione. Probabilmente quando si apre un blog questa è l’ultima delle cose alla quale si pensi. E se il povero giornalista in stage che lavora per una media-grande testata non viene pagato l’ombra di un quattrino e viene pure costretto a fare i lavori più noiosi e meccanici da “copia e incolla” la colpa non è certo sua. Altro che “untori” del vecchio giornalismo, senza questi piccoli operai che fanno il lavoro sporco probabilmente le redazioni sarebbero già impazzite.

Ma soprattutto ci si dimentica che se il giornalismo digitale oggi ha difficoltà a reggersi quasi ovunque la colpa è soprattutto del giornalismo, anzi, di alcuni giornalisti. Quelli che a metà anni novanta si limitavano a schernire gli addetti alle striminzite redazioni online definendoli “smanettoni”. Non è dei blogger la colpa se i giornalisti hanno tentato in tutti i modi, e non solo in Italia, di osteggiare qualsiasi integrazione fra lavoro cartaceo e digitale, e non è colpa dei blogger se i giornalisti hanno vissuto per anni di stipendi faraonici che in futuro, bravi o non bravi, quasi nessuno sarà più in grado di percepire.

Editori e direttori hanno trattato per anni le pagine dei giornali digitali come semplici bollettini dove riportare, e anche in maniera abbastanza disordinata, ciò scritto per la carta, senza spingere minimamente fuori il naso per vedere che stesse succedendo. E quando le redazioni, barricate nei loro fortini pericolanti, si sono accorte che il danno di internet era stato fatto, e che la pubblicità online non pagava nemmeno i caffè, si è iniziato a proporre le offerte di pagamento più bizzarre e a studiare le ricerche di mercato più futuriste, e chissà poi quanto futuribili. L’unica idea su cui si è trovato un comune accordo è stata quella di tassare Google, senza pensare nemmeno che poi tutti i costi aggiuntivi andrebbero a riversarsi su cittadini e aziende, e che fra l’altro Google avrebbe tutto il diritto di rinunciare a indicizzare i propri contenuti.

Sia chiaro, è bene che i giornalisti provino ad andare avanti. Devono farlo. Il loro valore è prezioso e va preservato, magari con un finanziamento pubblico che si basi su altri canoni rispetto a quello della distribuzione a pioggia; soprattutto in Italia dove ormai esso è considerato come un enorme sistema mangia-soldi anziché un generatore di risorse. Ma soprattutto non si può più fare distinzione fra un giornalismo cosiddetto “nuovo”, e un giornalismo “vecchio”, oggi c’è bisogno di entrambe le cose. Certo, il 95% delle notizie nascono ancora presso i grandi organi di informazione tradizionali, sono gli unici che hanno ancora le risorse per farlo. Ma il giornalismo oggi è molto di più che semplice ricerca e diffusione di notizie, e lo dimostrano i giornali di carta stessi, sempre più simili ai settimanali, legati al tentativo di coagulare attorno a sé coni identitari che la società postmoderna sta letteralmente spappolando. Il giornalismo “vecchio” oggi non sopravvive senza una divulgazione, una possibilità di rilancio e partecipazione, e in definitiva una “viralità”, che la Rete garantisce.

Ecco perché bisognerebbe cercare di addestrare le nuove generazioni di giornalisti a un lavoro che è insieme ricerca di notizie, controllo del potere, conversazione con gli utenti, individuazione di bisogni collettivi, gestione di comunità e sviluppo di servizi, un po’ nell’ottica di quello Ernico Pedemonte ha definito “ipergiornale”. Bisognerebbe che giornali e giornalisti cercassero di capire e interpretare al meglio -anche con una certa dose di umiltà- la loro nuova condizione di hub, al pari degli stessi e tanto vituperati blog. Certamente per i primi c’è la responsabilità di essere in grado di costruire il miglior giornalismo possibile, altrimenti trasformarsi in qualcos’altro, o peggio, chiudere. La partita si vince con un giornalismo autorevole, originale, puntuale, che sappia definire una propria identità senza che questa sfoci in una sorta di autarchismo giornalistico.

La via d’uscita a questa crisi, in definitiva, è, come spiegato bene da Sergio Maistrello, il giornalismo. Saprà il vecchio capire questo o continuerà a limitarsi a uno scontro fratricida, e inevitabilmente perdente, col nuovo?

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