QUANDO LO STATO PAGA, PAGA PER I SOLITI

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di Valentina Parasecolo

 

Ogni anno decine di milioni di euro statali sono utilizzati per finanziare i film italiani. L’articolo 28 della legge sulla cinematografia del 1965 prevede infatti che “film ispirati a finalità artistiche e culturali” possano ricevere una partecipazione pubblica ai costi. Nella formulazione originale, ci si riferiva alle opere prime. Poi, con buona pace del rinnovamento e delle nuove leve, nel 1994 autori e produttori hanno chiesto di allargare il finanziamento anche a film che secondo una commissione di esperti, nominata dal Ministro per i Beni Culturali, fossero considerati d’interesse culturale nazionale.

Una categoria in cui presto è entrato di tutto di più. Così nel 2004, per scongiurare la proliferazione di film trash finanziati dal contribuente come Mutande Pazze di Roberto D’Agostino

e Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana,

 

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è stato introdotto il reference system: per ottenere i soldi non basta solo il voto discrezionale della commissione ma anche un punteggio automatico che tiene conto delle esperienze e dei premi vinti dal cast e del regista. Risolti i problemi? No. Ecco perché.

1) Il finanziamento prevede che lo Stato copra il novanta per cento della spesa. Del prestito va restituito obbligatoriamente il trenta per cento, che scende al dieci nel caso si tratti di un’opera prima; per il resto scatta un fondo di garanzia. Se il film non incassa, lo Stato ne acquisisce per un periodo i diritti, tenta di rifarsi cercando di distribuirlo e se non ce la fa perde l’investimento. Nessuna certezza che i soldi ritornino indietro mentre è prassi consolidata che a riceverli siano anche grandi produttori come Aurelio De Laurentis e film kamikaze che talvolta non vengono neanche distribuiti (si pensi all’incredibile vicenda di Giampaolo Santini che dagli anni Settanta ai Novanta ha ricevuto sette finanziamenti per film mai arrivati in sala)

2) Il sistema, tipicamente italiano, tende a premiare i premiati e si rivela rigido nel ricambio. Se nella formulazione iniziale della legge l’attenzione era tutta volta ai nuovi registi, ormai ad accedere ai finanziamenti, grazie anche al reference system, sono essenzialmente nomi affermatissimi.
Prendiamo il 2013: Ermanno Olmi, Paolo e Vittorio Taviani, Matteo Garrone, Marco Bellocchio, Saverio Costanzo, Michele Placido, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Carlo Verdone… Prendono solo la menzione di interesse culturale le opere prime (senza contributo ma relativi sgravi fiscali) di Diego Bianchi, alias Zoro, con Arance e martello e di, udite udite, Walter Veltroni per il documentario Quando c’era Berlinguer.

3) La qualità delle valutazioni risulta più che discutibile. Parla da sola la lista di film, senza contributo, risultati di interesse culturale nel 2013. Sospendiamo il giudizio su quelli ancora da produrre o distribuire (Margherita di Nanni Moretti, Un matrimonio da favola di Carlo Vanzina, Soap opera di Alessandro Genovesi, E fuori nevica di Vincenzo Salemme). Gli altri titoli lasciano ampi margini di riflessione sull’idea di “interesse culturale” o, più semplicemente, su quanto profonda debba essere ancora una volta l’amarezza:

Sapore di te” di Carlo Vanzina:

 

Un boss in salotto” di Luca Miniero

 

Indovina chi viene a Natale?” di Fausto Brizzi

 

Tutta colpa di Freud” di Paolo Genovese

http://youtu.be/xO3OX1ZFvao

 

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