20 anni dopo

di Elisabetta Terigi

Era il sei aprile del 1992 quando i Serbi iniziarono l’assedio di Sarajevo, la capitale di quello stato che sarebbe dovuto essere un paese indipendente. L’autonomia della Bosnia dalla Jugoslavia (che ormai era formata solo da Serbia e Montenegro) venne proclamata dai croato bosniaci e bosniaci musulmani in seguito ad un referendum tenutosi nel marzo del 1992.

Da allora cominciò l’inferno. I serbi di tale regione non accettarono il nuovo stato, nonostante fosse stato riconosciuto dalle Nazioni Unite. I serbo bosniaci proclamarono poi la nascita nei territori a prevalenza serba della Repubblica Serba (Republika Srpska), di cui Radovan  Karadžić divenne il presidente. Era il 13 maggio del 1992. Assumendo la presidenza della Repubblica, egli divenne il comandante in capo dell’Esercito Serbo-bosniaco con il potere di nomina e revoca degli ufficiali.

Il conflitto – Slobodan Milosevic, leader di Belgrado, sosteneva politicamente e militarmente Radovan Karadzic. Fu quest’ultimo a guidare l’assedio di Sarajevo e fu poi arrestato per crimini contro l’umanità dal tribunale internazionale dell’Aja. Suo braccio destro, capo di stato maggiore dell’esercito, era Ratko Mladic anche lui accusato poi di genocidio e crimini contro l’umanità e arrestato nel 2011 dopo 16 anni di latitanza. Furono Karazdic e Mladic i responsabili del massacro di Srebrenica che provocò 7.000 vittime (tra i musulmani) nel 1995. Sarajevo e Srebrenica – secondo Karadzic interrogato poi sui crimini di guerra in sede internazionale – sono stato solo dei falsi miti.

Quando arrivarono le bombe – Era il 2 maggio del 1992 quando Sarajevo venne bombardata per la prima volta. Quella guerra nel cuore dell’Europa provocò centomila morti e un milione e ottocentomila rifugiati. 44 mesi. Tanto durò l’assedio di Sarajevo, il più lungo tra quelli del ventesimo secolo. Dalla notte tra il 4 e il 5 aprile del 1992, quando iniziarono i combattimenti, al 29 febbraio del 1996: 11.541 le vittime, delle quali 1600 erano bambini.

La ferita ancora aperta – Sono passati venti anni, ma il dolore non si dimentica. Tante le conferenze e le celebrazioni in questo triste anniversario. Una su tutte: 11541 sedie rose, color sangue, disposte lungo il viale principale di Sarajevo e un maxi-schermo che trasmette a rullo i nomi che corrispondono a quelle sedie: cittadini caduti durante l’assedio.

Anna Frank nei Balcani –  Il due agosto del 1993 Zlata, una bambina di 11 anni di Sarajevo, nel suo diario scriveva: «Alcune persone mi paragonano ad Anna Frank, e ciò mi sgomenta. Ho paura di fare la sua stessa fine».  Zlata Filipovic, figlia di un padre avvocato e di una madre chimico, era nata in una famiglia borghese di religione musulmana a Sarajevo. Visse con gli occhi dell’infanzia i dolori di una guerra senza senso e li trascrisse in un diario, tradotto in 35 lingue con più di un milione di copie vendute.

«Cara Mimmj, NOIA!!! SPARI!!! GRANATE!!! MORTI!!! DISPERAZIONE!!! FAME!!! DOLORE!!! PAURA!!! Questa è la mia vita, la vita di un’innocente ragazzina di undici anni!!! Una scolara senza scuola, senza le gioie e l’eccitazione della vita scolastica. Una bambina che vive senza giochi, senza amici, senza sole, senza uccelli, senza natura, senza frutta, senza cioccolata, senza caramelle, solo con un po’ di latte in polvere. In poche parole, una bambina senza infanzia. Una bambina della guerra».

Zlata ha 31 anni e vive a Dublino, ha studiato scienze umane ad Oxford. Ormai è una donna, ma porta con sé un doloroso passato. Vuole rendersi utile per i bambini che oggi vivono l’esperienza che lei visse 20 anni fa.

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Dopo 20 anni niente pace, ma schizofrenia – Il passato ritorna sempre uguale a se stesso. Non sembra conoscere tregua la terra dei Balcani. Il quotidiano viennese Die Presse spiega che la situazione non è affatto risolta e i problemi di venti anni fa sono ancora irrisolti. «Da una parte si rafforza il principio etnico di costituzione e principi fondamentali, dall’altra invece si cerca di rafforzare gli alti rappresentanti della comunità internazionale. Infine l’Unione europea ha messo in chiaro con i politici bosniaci che il paese non potrà entrare nell’Unione fino a quando manterrà le complicate strutture create dalla comunità internazionale a Dayton. Ma al momento non esiste alcun accordo interno su una riforma strutturale».  «Le eredità della guerra – ricorda El Paìs infine – sono profonde quanto le divisioni della Bosnia e l’unico modo per dire basta a lotte, più o meno latenti, interetniche, è attraverso l’integrazione dei Balcani nella grande casa europea». Resta solo da chiedersi se il sogno di pace di Zlata e di altri bosniaci come lei si avvererà davvero in un futuro prossimo.

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