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di Francesco Fante

Questo testo è il frutto di una serata passata a un comizio di Salvini, in una cittadina di medie dimensioni del nord Italia, in una sala da circa 300 posti completamente piena.

Quando “il capitano”, così lo chiamano molti seguaci, entra in sala, il pubblico applaude entusiasta. La stessa reazione che molti avranno di fronte a numerose delle sue idee politiche.
Un’ora di semplificazioni travestite da verità rivelate come se Salvini, che le propaga, fosse l’unico politico che ha il coraggio di dirle, sfidando questo moloch invisibile che il pubblico e il leader chiamano il politically correct.

Le semplificazioni usate da Salvini servono a creare e difendere un’identità e passano attraverso una serie di passaggi logici fallaci o palesemente sbagliati in cui il richiamo all’emotività di chi ascolta gioca un ruolo fortissimo.

Di volta in volta gli elementi contingenti del discorso cambiano per legarsi all’attualità ma le categorie rimangono le stesse.
C’è, stabile, il richiamo alla tradizione, che include più o meno implicitamente quello alla religione cattolica. Valori da difendere, per cui ne vengono esaltati alcuni aspetto così da renderli non solo esattamente distinguibili ma soprattutto opponibili agli altri.

Ci si rivolge così in continuazione a simboli familiari attraverso metafore e iperboli per tenere viva l’attenzione del pubblico e stimolarne senso di appartenenza ed emotività. E’ il caso, recentemente, del presepe: è sotto attacco, dice Salvini:

“Io caccerei dalle scuole gli insegnanti che impediscono ai bambini di cantare ‘Tu scendi dalle stelle’, sono dei matti che fanno finta di niente di fronte alle stragi di Parigi, gente di sinistra, ipocriti che entrano in classe con l’Unità sotto il braccio e parlano di Marx e dei partigiani come se fosse una figata”.

L’artificio retorico è chiaro: Salvini presenta come a rischio una tradizione culturale e familiare come il Natale, e in particolare il suo aspetto più ingenuo, i canti natalizi dei bambini, creando negli ascoltatori uno stato di risentimento costante, una frustrazione. A minacciare la tradizione sono le stragi, ma anche gli insegnanti che fanno finta di niente, o, peggio, indottrinano gli studenti con l’Unità.

La frustrazione che paragone e iperbole generano nel pubblico trova sfogo quando, in rapida successione, vengono descritti altri problemi legati al precedente: le migrazioni e l’Islam.
Salvini arriva a dire che l’Islam oggi è un pericolo mondiale. Non i terroristi o gli estremisti ma questa religione in generale. Dopo poco finge di correggere il tiro, dicendo che certo non tutti i musulmani sono terroristi.
Ma guarda caso, aggiunge, anche i colpevoli degli attentati a San Bernardino, Usa, erano musulmani, persone che erano migrate da tempo ma che evidentemente non si erano integrate. “Risorse, le chiamerebbe qualcuno da noi”, dice Salvini.

Adesso il messaggio al pubblico è chiaro:

dovete essere diffidenti e non farvi irretire da chi con la retorica delle risorse vuole farvi credere che l’immigrazione sia un fenomeno positivo.

Infine la parola d’ordine è chiara: no all’Islam terrorista e che ci vuole pure far togliere il presepe con la scusa di favorire l’integrazione di chi non si integrerà mai ma nel frattempo sta smontando le nostre tradizioni. In una serie di rimandi in cui locale e globale si intrecciano, Salvini costruisce il discorso discriminatorio

La resistenza a questi rimandi vuol dire il tradimento delle proprie tradizioni e dunque non è accettata.
Ma c’è di più. Costante è il riferimento a presunte barriere del linguaggio che limiterebbero la libertà di espressione: sessismo, razzismo, discriminazione sono solo scuse che gli alfieri del politically correct usano per imbavagliare le voci del dissenso, tra cui, ovviamente, anche la sua.
E qui si inserisce anche il vecchio risentimento nei confronti della presunta esibita superiorità morale della sinistra (che trova il suo corrispettivo nei riferimenti sprezzanti a comunisti o alla sinistra tout cour come a dei traditori della patria).
Tramite questi artifici logici è possibile sdoganare il discorso sessista, razzista e discriminatorio travestendolo in voce degli oppressi, mentre è per sua natura un discorso opprimente.

L’ottica salviniana è per molti liberatoria: ah, finalmente possiamo dirci tra di noi le cose come stanno, senza che nessuno ci giudichi sessisti o razzisti. In sostanza, il permesso di dare sfogo ai propri istinti più bassi, quelli che non dovrebbero entrare nella sfera del vivere comune ma essere accantonati proprio per rendere il vivere comune più facile. Una fatica, in un Paese che evidentemente non educa abbastanza i propri cittadini alla convivenza collettiva e asseconda invece pulsioni individualistiche.
Conferma di questa tesi si trova non solo nei riferimenti ai temi più “elevati” come la religione, ma anche in quelli ai temi più “triviali”. “Dobbiamo liberarci dalla mentalità che colpevolizza chi mangia wurstel e pane e salame”, dice Salvini, sapendo di parlare con persone che nella maggior parte dei casi non si sono mai poste il problema di quanto possa essere etico il vegetarianesimo.

Questa mendace teologia della liberazione permette al soggetto l’espressione più individualistica e trova un freno non nella razionalità ma solo nei valori della tradizione da considerare obbligatoriamente condivisi (famiglia, patria, radici cattoliche) e a cui contrapporre ogni valore diverso: sia quelli già conosciuti, sia quelli che verranno.
Così il pensiero leghista è un rifugio sicuro perché mette al riparo da ogni alterità e si presta a superare ogni divergenza. Allo stesso tempo è però un freno che tiene l’individuo nel suo stato di isolamento e non consente alcuno sviluppo poiché non contempla la differenza se non come aggressione da cui difendersi.

Seguendo queste linee guida è possibile bocciare qualunque giudizio etico-morale non formulato sui canoni della tradizione, che non vengono mai messi in dubbio.
In sostanza, l’adesione totale e irrazionale alla comunità identitaria dello Stato non ne permette la rielaborazione individuale, dando così il permesso agli individui di essere degli idioti senza nemmeno doversi giustificare.

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