il bureau - Bobi Raspati - Note Dolenti

di Bobi Raspati

Esaurita l’ispirazione dark che aveva indirizzato nome, taglio di  capelli e due album, gli Horrors provano a spaventarci a morte con 54 minuti di noia. Adorati dalla stampa inglese, i ragazzi si erano vestiti da zombie per quattro anni. Il vivace esordio Strange House era un garage-rock infarcito di riferimenti al post-punk più cadaverico (Cramps e Bauhaus su tutti) e il seguito Primary Colours tentava una variante ombrosa dello shoegaze (leggisi banalizzazione dei My Bloody Valentine). La virata estetica di questo album è evidente, la metafora scontata. Laddove era tutto nero, un cielo denso di nuvole eppur luminoso schiarisce gli orizzonti musicali del quartetto.

A star sotto il sole le idee sgocciolate nei primi due dischi evaporano tra le suddette nuvole. Il metodo rimane invece lo stesso: buttarsi a peso morto su un marchio della storia recente del pop-rock e profanarne l’immaginario (stavolta si rinvengono le albioniche patacche di Psychedelic Furs, Stone Roses, Chamaleons e Slowdive). L’inespressivo vocione di Faris Badwan, un Ian Curtis di terza mano, tenta di adeguarsi soffice alle nuove atmosfere dream-pop. I riff secchi degli esordi sono mutati in dilatazioni ariose (‘Dive In’ banalizza i primi Verve), il synth arpeggia stucchevole come nei tardi Echo & The Bunnymen (‘I Can See Through You’ si spinge ben oltre) e la batteria ricalca tutti i ritmi della Manchester che fu (e dai di charleston in levare, vedi la neworderiana ‘Wild Eyes’).

Abbassati i volumi e rallentati i tempi, i limiti compositivi del gruppo saltano però all’occhio. Arrivati in capo al disco si constata che in versione technicolor le segrete degli Horrors sono solo scantinati fetidi di muffa. Tenetevene alla larga, e piuttosto rintracciate un po’ dei gruppi citati.

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