POCHI AGENTI, TROPPI DETENUTI

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Pochi agenti, troppi detenuti

di Valentina Parasecolo

 

Prima di andare in pensione, al ritorno dal lavoro, delle volte restava in giardino a camminare. Passeggiava sul prato, sotto la pioggia, quasi a ripercorrere il rito altrui dell’ora d’aria. «Dopo un giorno in quel posto, sentivo il bisogno di respirare», racconta Michele Santarsiere con il sorriso imbarazzato di certe brave persone. Lui, che ha passato una vita a lavorare là dentro, da qualche anno il carcere lo vede solo da fuori, tornando nella sua casa, a qualche centinaia di metri.

 

Michele ha iniziato a lavorare al carcere di media sicurezza di Potenza nella metà degli anni Ottanta. Ma la sua carriera nelle prigioni era iniziata prima, negli anni Settanta: partito dalla Basilicata, ci è tornato passando per Roma, la Liguria, Bari e Lucera, vicino Foggia. Quello di Potenza non è un carcere grande, soprattutto se paragonato a quello di Bari «dove c’erano centinaia di detenuti a piano». Circa cento dovrebbero essere invece quelli dietro alle sbarre a Potenza, sono invece quasi il doppio. «Per controllare se erano tutti in cella, dovevi arrampicarti sui letti, altrimenti neanche riuscivi a vedere», ricorda lui.

Michele era un agente dell’ufficio matricole. Qui arrivano gli arrestati, vanno e vengono i detenuti trasferiti, vengono raccolte le istanze di chi sta dentro. L’ufficio matricole è anche l’ultimo posto che vede un detenuto prima di andarsene. «In realtà molti criminali entrano ed escono. Uno veniva a chiederci di aprirgli per la notte per dormire, come fosse un albergo». Diversamente da un albergo, però, l’ambiente è grigio, nei peggiori dei casi, feroce: «Soprattutto negli ultimi anni, con l’arrivo massiccio di immigrati che sembrano meno interessati a ottenere sconti, si creano clan, ci sono scontri». E a fronte del sovraffollamento e delle condizioni più volte denunciate in cui versano i detenuti, non c’è neanche un personale sufficiente.

«Fino agli anni Ottanta – spiega Michele – facevamo tanti straordinari, mai retribuiti. Poi abbiamo iniziato ad avere un minimo di tutela sindacale. A Potenza eravamo un centinaio, sarebbe servito circa un terzo in più di dipendenti. Un carcere è un posto delicato, quando ci lavori hai una responsabilità enorme. Anzi, forse l’aspetto che ricordo maggiormente di decenni di servizio, è l’importanza di non commettere errori. Se sbagli un foglio, per un trasferimento o altro, le conseguenze sono gravi». Lavorare in un carcere italiano significa spesso ritrovarsi con pochi colleghi, molte responsabilità, tempi strettissimi. Ad ogni modo, Michele dice di non essere dispiaciuto di aver fatto questo lavoro. Fatto, non scelto «perché quelli erano anni in cui ti ci ritrovavi a fare un lavoro: non ti chiedevi se desideravi realmente farlo». Tuttavia, confessa timidamente, «a me piace la campagna, forse per questo, dopo otto ore, avevo tanto bisogno di respirare».

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