One Man Band, tecnologia, corpo, musica: Dustin Wong, Colin Stetson, Paolo Angeli

il bureau - Bobi Raspati - Note Dolenti

Se dico one man band, i più romantici si immaginano un poveraccio con chitarra a tracolla e grancassa sulla schiena, ‘na trombetta e uno stucchevole cappellone. Gli scafati invece, un tizio che maneggia uno stuolo di loop station, fa i beat con la bocca e tutte quelle porcate da pomeriggio a Covent Garden (o da Circolo degli Artisti, va da sè). Oppure un depravato così. Vero, miei cari, ma quanto altro c’è da dire! Il presente articolo vi mostrerà tre incarnazioni dell’idea di one man band, roba di questi mesi qui. Assieme, un pugno di boriose riflessioni sul rapporto tra tecnologia, corpo e musica, a svelare assemblaggi bio-macchinici da far impazzire Shinya Tsukamoto e li mortacci di Guattari.

Dustin Wong – Meditation of Ecstatic Energy [Thrill Jockey, 2013]

Voi amici del Bureau già conoscerete il chitarrista nippo-americano Dustin Wong, ex membro dei Ponytail giunto in quest’annata al terzo album solista. La sua musica è un aggiornamento in chiave indie del minimalismo di Steve Reich, ottenuto attraverso la stratificazione di mille e mille frasi di chitarra elettrica. Erede di Robert Fripp e dei suoi frippertronics, le sue intricate sinfonie sono registrate live, senza sovraincisioni o inciuci di mix. Individuare le fonti sonore di tanto pulsare è apparentemente facile: una telecaster intrappolata e moltiplicata da una catena di pedali robusta ma essenziale (tra cui un paio di delay e un octaver). La realtà, miei cari, è però più sottile. Dustin Wong non è un solista e nemmeno un manipolatore elettronico. I loop che pazientemente inscrive non sono una superficie sulla quale adagiarsi ma un’architettura escheriana in continuo disfacimento e in perenne ricostruzione. Sebbene più elementare e comune delle altre qui presentate, l’idea di one man band impersonata da Dustin è basata su un rapporto simbiotico tra musicista e strumenti, tra corpo e tecnologia. Legni e circuiti elettronici, mani, plastica e immaginazione. E tempo, tanto tempo impiegato a fondere l’una cosa con l’altra. Guardatelo suonare: Dustin Wong non usa la tecnologia, la abita.

Colin Stetson – New History Warfare Vol. 3: To See More Light [Constellation, 2013]

Le cose si complicano con Colin Stetson, sassofonista chicaghese residente a Montreal, astro della corrente hipster-civatiana. Tamarro e palestroide, il ragazzo conosce bene i prodigi della respirazione circolare. Le sue composizioni sono scritte unicamente per sassofono e i suoi dischi registrati in presa diretta: anche qui, niente sovraincisioni. Anzi, niente loop e nessuna macchina: solo ottone e carnazza, sbandiera con orgoglio luddista la macchina promozionale. Ma quante voci riusciamo a sentire? Colin strilla dentro il proprio strumento mentre al contempo sfiata un tappeto di sussulti metallici, puntellati dal pestare sui tasti. Dietro (e dentro) il sassofono c’è lui, che si gonfia, diventa paonazzo, si scuote, sbuffa. Eppure anche qui la realtà è più complessa. Per prima cosa, a un ascolto distratto la musica di Colin Stetson appare come musica elettronica perché il suo compositore ne è con ogni evidenza ispirato (la somiglianza con Arthur Russell è ben più marcata di quella con l’avant-jazz di Anthony Braxton). Seconda cosa, il progetto si regge su un meticoloso lavoro di amplificazione e di mixaggio da parte del musicista Ben Frost: una trentina di microfoni, sul corpo del sassofono e su quello del sassofonista, sulle sue dita e sul suo gargarozzo. Insomma, se l’aggettivo più usato per descrivere la musica di Colin Stetson è viscerale, le interiora sua paiono attorcigliate a un groviglio di cavi e manopole. Se funziona e colpisce, non è tanto per le note suonate quanto per il timbro, umano, corporeo, amoroso. E perché così ci pare più autentica, e intima. Colin Stetson inscena la ribellione della carne sulla tecnologia. Al contempo abdica però alla burocratizzazione del corpo, al suo farsi macchina.

Paolo Angeli – Sale quanto basta [RēR, 2013]

Ebbene sì, ecco il solo italiano presente nella nostra classifica del 2013. Cresciuto nella ventosa Palau, Paolo Angeli è un musicista prodigioso, e senza dubbio unico. Non solo per la classe con cui lega la musica tradizionale sarda al jazz e all’avanguardia (discepolo di Pat Metheny e Fred Frith), cacciando fuori delizie mediterranee incomparabili con le fetenzie della world music. Ma anche per il modo in cui tale fragrante pagnotta è preparata. Se il modello di one man band incarnato da Dustin Wong è di tipo autistico (anni a studiare il funzionamento dei propri pedali) e quello di Colin Stetson disciplinare (allenare il corpo affinché, attraverso la tecnologia, suoni come un corpo che si ribella alla tecnologia), Paolo Angeli propone un modello artigiano. Suona e compone su una chitarra sarda (una chitarra classica con cassa armonica più ampia e diversa accordatura) alla quale ha apportato una lunga serie di modifiche – corde di qua, pistoni di là, eliche, manovelle, rotelloni, cavi – che gli permettono di suonare “a quattro zampe”. Cioè quattro voci diverse, suonate assieme, più tutti i suoni che corpo e chitarrone riescono a produrre. Nè luddista né ipermoderna, ogni performance del buon Paolo evoca la paziente messa a punto della sua chitarra, e aggiustamenti, ripensamenti, cambi di rotta. E appunto, un’unione di modernità e tradizione. Musicista, compositore ed inventore, i suoi dischi (e questo è senza dubbio il più compiuto, ma segnalo qui anche il precedente, con musica di Frith e Bjork) rappresentano un percorso poetico che è assieme tecnologico: la costruzione dello strumento perfetto, che permetta di veleggiare verso la sua musica. Che poi è un po’ anche la nostra.

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