L’ITALIA È IN RECESSIONE. DA VENT’ANNI

il bureau - marco viviani - il pinguino di herzog

di Marco Viviani

Allarme, delusione, shock. L’Italia è in recessione. Chi l’avrebbe mai detto che gli 80 euro non avrebbero funzionato? E tutte quelle riforme? Non dovevano tranquillizzare Bruxelles e ammorbidire l’austerity? Non si sa come reagire alle superficiali reazioni dopo gli ultimi dati Istat, che non hanno fatto altro che farci sapere quello che nessuno in Italia dovrebbe ignorare: che il nostro paese è in piena crisi strutturale.

Il cuneo fiscale può aiutare i piccoli consumi – infatti la coldiretti ha registrato un +4% – mica l’industria, che compete sui mercati del mondo. Eppure, in questi giorni toccherà assistere a titoloni, intere trasmissioni e qualche editoriale velenoso e dispettoso, qualche sindacalista rialzerà la testa sparlando di “investimenti-lotta all’evasione” senza fornire una sola spiegazione concreta su come davvero trovare le risorse per immaginare un’antistorica politica del lavoro statale; qualche frondista si sentirà meno solo. Tutte scenette: l’Italia è in crisi di mezzi di produzione da vent’anni, non da due mesi.

Ogni tanto va raccontato cosa è successo, spiegato perché da tutto questo tempo il paese non produce, non alza il PIL e quindi non sostiene bene la spesa e mantiene alto il rapporto col proprio deficit. Ogni possibilità di compensare la nostra debolezza economica, intrinseca da decenni, perciò incapace di agganciare qualunque tipo di ripresa continentale, è finita con il (giusto) ingresso nella moneta unica europea, che ha impedito alla nostra poco fantasiosa classe dirigente (politica e imprenditoriale) di fare il giochino della svalutazione, quando in mancanza di una revisione della spesa pubblica che fosse una si puntava tutto sulla bilancia commerciale e si faceva finta di non vedere l’esplosione di tribunalini, universitine, dipendenti regionali provinciali e comunali, aree industriali grandi come francobolli, potentati locali, riserve di voti in zone depresse. L’appetito del ventre della società rincorreva quello dello Stato e viceversa.

Anni e anni e anni di indifferenza, incompetenza, instabilità politica, corruzione diffusa, evasione fiscale di massa (per sopravvivere a uno Stato drogato di fisco che era solo l’altro aspetto di una popolazione drogata di paternalismo), nessun piano industriale serio, hanno prodotto il risultato sotto gli occhi di tutti. Non ha alcun senso storico e politico prendersela soltanto con un governo di pochi mesi di vita e neppure con gli ultimi 4 o 5. È questione molto più profonda e anche per questo difficile da risolvere.

L’Italia è in declino, completamente, e se siamo onesti con noi stessi sappiamo tutti perché. Non bisogna andare neanche troppo lontano, a Roma o in qualche palazzo, che pure colpe ne hanno, ovvio. Se non altro di non aver saputo invertire la tendenza con azioni coraggiose o impopolari, come ad esempio un patto generazionale per le pensioni e il lavoro sfidando il conservatorismo sindacale; una lotta senza quartiere alla criminalità organizzata nel sud, accettandone la reazione violenta piuttosto che adagiandosi sulla mentalità del tacito accordo di convivenza / connivenza.

Per capire il nostro declino basta però guardarsi allo specchio, o dare un’occhiata al proprio vicino. Al notabile di provincia che decide i posti nelle aziende municipalizzate, all’imprenditore senza scrupoli che viaggia a 300 all’ora senza freni e non pensa ai suoi dipendenti, al servitore dello Stato che chiama amichevolmente prima del controllo, all’artigiano e professionista che “dottò, qui siamo tutti brava gente: non facciamo fattura”.

Abbiamo perso tutti i treni possibili. Avevamo i migliori ingegneri all’Olivetti e alla Fiat: persi. Avevamo la migliore offerta turistica: sorpassati. Avevamo la natura più bella: due giorni di pioggia e devi scappare. Avevamo le più antiche università e ottimi risultati: siamo in fondo a tutte le classifiche Ocse per competenze alfabetiche e informatiche. Avevamo la dignità di chi aveva perso la guerra, ma sapeva ricostruire un paese. Ora, al massimo, ci si fa la guerra in fila all’Apple store per l’ultimo aggeggio di cui non c’è bisogno e che ti paga papà.
Dove vogliamo andare? Con chi seriamente ce la vogliamo prendere?

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