L’ANALFABETISMO? UN’ALTRA TAPPA DEL NEOLIBERISMO

il bureau - inchiesta ignoranza - massimiliano panarari 1

di Marco Viviani

 

Quando si osserva il dibattito politico italiano si nota una sproporzione inaudita tra il dato di realtà e il suo uso retorico, nel quale gioca sempre più il suo ruolo un proselitismo che sfrutta timori, pregiudizi, allineamenti indotti. In tanti interpretano la realtà molto pigramente, secondo griglie importate dalla televisione o magari dalla Rete: media che hanno sostituito la vecchia, anche se mai realmente popolare, egemonia culturale della parola con una nuova “Egemonia sottoculturale”. Questo era il titolo del saggio dirompente di Massimiliano Panarari (foto in alto), politologo ed editorialista, che nel 2010 ha avuto il merito di scrivere nero su bianco nomi e vicende che hanno fatto di questo analfabetismo un protagonista politico assoluto, grazie ai vettori televisivi che già dai primi anni ’80 e fino ad oggi hanno in sostanza sostituito i classici luoghi dell’apprendimento, esaltati dalla sinistra e risultati perdenti. Di cosa stupirsi se in Italia nasce il primo talent show letterario del mondo? Solo dove si legge pochissimo si è portati a pensare che scrivere sia facile, banale.

I dati dell’Ocse dicono che gli italiani si caratterizzano più di tutti gli altri popoli europei per un grave analfabetismo di ritorno e funzionale. Il  ministro Carrozza ha subito detto che ci vuole una inversione di marcia. Ci sarà?

La prendo in parola, ma onestamente mi stupisco dello stupore dei politici: sono dati noti, da anni, le conseguenze dei quali sono davanti ai nostri occhi.

Queste mancate competenze e abilità sono alla base di ciò che tu hai definito egemonia sottoculturale?

Credo si debba fare un passo indietro. L’Italia è debole fin dall’origine, dalla sua unificazione. Certamente gli anni Ottanta del Novecento hanno visto l’affermazione di una visione economicista che definiamo neo-liberista, responsabile di una drastica e continua riduzione delle risorse, compresa la scuola. Queste politiche, che hanno in qualche modo interpretato postmodernamente le debolezze storiche italiane, hanno agito con lo scopo, folle, di diminuire il più possibile i costi e aumentare i profitti senza cura degli effetti sociali e delle contraddizioni: la scuola forma cittadini, ovvio, ma costruisce anche lavoratori preparati al mercato, individui con competenze spendibili.

Responsabilità della classe dirigente?

Altissime. Sono le classi dirigenti di questo paese a non aver avuto la capacità di affrontare i problemi derivanti dalle “tappe forzate” della modernità e dell’economia. Non hanno supportato i cambiamenti, sono state a guardare gli effetti devastanti dei tagli, che hanno prodotto una nuova forma di emigrazione: i giovani più preparati si vedono costretti ad andarsene per trovare opportunità e nella competizione globale l’Italia scende nella scala più bassa, ri-collocandosi dov’era negli anni ’50. Peccato però non sia più possibile la banale economia del boom di quegli anni, fatta di  svalutazione e di competitività per il basso costo del lavoro. Adesso lo fanno i paesi extra-europei.

Con l’Italia non sai mai se si tratta di spaventosa arretratezza oppure l’avanguardia di un nuovo peggio: veniamo da anni di istituzioni culturali umiliate, tagli ai teatri, alle ore di scuola, all’apertura delle biblioteche, agli spazi pubblici di partecipazione.

Considerazione interessante, ma è difficile dare una risposta. Che il nostro paese sia laboratoriale è secondo me un dato di fatto, spesso ha architettato le esperienze più negative, a partire dalla filosofia del rimandare. Molti problemi segnalati anche da questi studi si sarebbero potuti evitare se la politica non avesse così tanto procrastinato. Rimandare non è una tattica intelligente. Questo però non significa che sia troppo tardi: è possibile trovare le risorse da investire nell’istruzione. Questo paese ha un bisogno disperato di policy adeguate, di uno Stato non oppressivo e non paternalista, di una scuola che rappresenti il primo passo verso un’Italia che impari di nuovo a stare dignitosamente insieme agli altri paesi, con livelli di competitività all’altezza delle sue stagioni migliori.

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