LA GRANDE IGNORANZA

il bureau - inchiesta analfabetismo - la grande ignoranza

 

di Marco Viviani

«Con questi dati, gli italiani sono inoccupabili». Così affermò il ministro Giovannini commentando l’ultimo report dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), riportato dall’ISFOL su incarico del Ministero del Lavoro e dell’Istruzione nell’ambito dell’indagine condotta insieme al PIAAC, il programma internazionale sulle competenze degli adulti. Una classifica frutto di due anni di lavoro che ha messo il paese come fanalino di coda in Europa, coerentemente con gli ultimi round di studi Ocse, ad esempio l’ALL (Adult Literacy ad Life Skills) che già nel 2006 lanciò l’allarme sul deficit italiano di competenze/abilità utili al «pieno esercizio della cittadinanza e per poter vivere e lavorare».
Come da copione, contro il ministro si alzarono furenti critiche verso quel giudizio così tranchant. Alcune giuste, rivolgendosi alle responsabilità della politica, molte altre (quasi tutte) ipocrite. È innegabile che questo paese soffra di una Grande Ignoranza, madre di tutte le illusioni, le degenerazioni e le carenze.

Le competenze analizzate dagli osservatori internazionali sono di tre tipi: la competenza alfabetica funzionale, quella matematica e il problem solving. La prima riguarda la capacità di comprensione di un testo, di utilizzarlo, ricercarlo, di interagire con efficacia nei contesti sociali di riferimento per raggiungere i propri scopi e migliorare le proprie conoscenze.
Per competenza matematica funzionale si intende la capacità di utilizzare gli strumenti matematici e di applicarli, con rappresentazioni dirette, grafici, formule, modelli che mettono in relazione proporzioni diverse. Insieme, queste due competenze sono l’evoluzione di quel che in passato era “leggere e far di conto”.
Il problem solving è la capacità di analisi e di soluzione di un problema, il ragionamento in azione in una situazione nella quale non esiste una procedura precostituita.

Guardando ai livelli registrati dai sondaggi si scopre che la popolazione italiana – ampia fascia d’età 15-65 anni, dunque un campione molto utile per avere una fotografia generale che riguarda non solo la parte attiva – è distribuita per i primi due skills nella metà dei casi al primo livello, il più basso: al di sotto del livello minimo indispensabile e comunque parecchio sotto la media continentale e dei paesi sviluppati.
Nel problem solving è persino peggio: sette italiani su dieci non superano il livello 1 e soltanto il 6,5% è considerabile di alto livello. Abilità nelle quali il Giappone, la Svezia, il Canada, mostrano percentuali più che triple. Nei 24 paesi europei considerati nell’ultima indagine il dato ci pone all’ultimo posto.

La condizione di storica diffidenza verso il letteralismo come abilità utile nella vita ha creato i presupposti di questi dati sconfortanti, la crisi politica ed economica degli ultimi anni li ha trasformati in un incubo. L’assenza di strategie sulle nuove modalità di conoscenza ha peggiorato la situazione e l’innalzamento della scolarizzazione non ha rimediato in alcun modo, perché la scuola qui è ancora analogica mentre il life long learning si basa sulla continua evoluzione in relazione alle trasformazioni economiche e sociali.

Il risultato è una miscela letale: adulti con basse abilità alfabetiche funzionali che hanno una probabilità di sperimentare la disoccupazione due volte e mezzo superiore a quella dei coetanei europei; il grande numero di neet, giovani senza lavoro e senza studio, completamente esclusi dal mercato; percentuali massive di disoccupazione giovanile. Giovani che spesso hanno competenze alfabetiche migliori degli adulti occupati, ma che vanno sprecate. Questa combinazione di scarse competenze nella parte attiva della società italiana e di competenze nulle o soffocate in quella di ingresso è il dramma italiano per eccellenza. Lo spread di cui si parla troppo poco.

L’unica soluzione è occuparsi sia dei giovani che dei loro genitori. Gli under 25 del Belpaese mostrano livelli di competenze che vanno incoraggiati da politiche economiche e scolastiche: il 39% dei 16-25enni si colloca soltanto al livello 2, mentre il 26% è al livello 3.  Una base su cui lavorare, senza aspettare però i molti anni necessari perché queste migliori abilità entrino in circolo, bensì operando per farle entrare in anticipo nel mondo del lavoro – così da migliorare la competitività del paese – occupandosi il più possibile anche della formazione continua degli adulti (24% rispetto al 52% della media Ocse). Anche perché l’abbandono scolastico – dettato dalla disperazione, soprattutto nelle regioni del sud – comincia a farsi sentire e la quota degli over 30 con competenze funzionali, anche tecnologiche, più alte degli under 20 è un’altra anomalia molto grave, se si considera che i 30enni senza diploma di scuola secondaria in Italia sono il 30% contro il 10% della media Ocse. Stiamo andando particolarmente male dove si dovrebbe andare  meno peggio.

 

FontiISFOL-PIAAC 2013 ;  ALL

 

 

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