L’ULTIMO STUDENTE?

di Paolo Gervasi

 

“Mia madre non aveva poi sbagliato, a dir che un laureato conta piú di un cantante”, confessava Francesco Guccini: ed era un’amara e avvelenata concessione al pragmatismo piccolo-borghese, al senso comune che vedeva nella laurea il segno di un prestigio culturale immediatamente traducibile in un’ascesa sociale. Naturalmente, sotto la concessione, c’era la critica: alle certezze della formazione ufficiale si opponeva la strada incerta dell’arte, la ribellione sognante di chi non si lascia inquadrare dalle convenzioni, esercita una creatività autonoma e svincolata da ogni affermazione sociale.

 

Oggi, a quasi quarant’anni da L’avvelenata di Guccini, la mamma del cantante vede nelle aspirazioni del figlio una prospettiva professionale ragionevole: sono i genitori del laureando, viceversa, a vivere di apprensioni e angosce per il giovane che, con ogni probabilità, dovrà contare a lungo sul welfare sostitutivo garantito dalla loro pensione (che, ricordava il padre di Guccini nella stessa canzone, “è davvero importante”). I rapporti di forza si sono rovesciati: il pragmatismo sta dalla parte di chi, spesso costretto dalla necessità, abbandona lo studio, e si mette presto in cerca di un lavoro, il piú delle volte scarsamente qualificato. Il sognatore, colui che sfida il senso comune e si lancia nel vuoto è, oggi, chi sceglie di intraprendere un percorso universitario.

 

A raccontare la realtà di una vera e propria fuga dall’università sono i dati elaborati dal Consiglio Universitario Nazionale, e sintetizzati dalla nostra infografica: immatricolazioni in calo costante ormai da un decennio, una media del numero dei laureati che è la più bassa in Europa, e la penultima dei paesi Ocse, contrazione delle borse di studio, tagli all’offerta formativa, riduzione del numero dei docenti, dei laboratori, dei corsi. Il tutto sullo sfondo del prosciugamento progressivo del Fondo di Finanziamento Ordinario, il salvadanaio degli atenei italiani.

 

Osservati nel dettaglio, i dati rivelano che la rinuncia al percorso universitario riguarda in particolare studenti, prevalentemente residenti al sud, provenienti da istituti tecnici e professionali, ovvero, spesso, appartenenti a famiglie che dispongono di minori risorse economiche (e di un piú debole capitale culturale di partenza). In questo contesto diventa necessario affermare l’importanza strategica delle politiche a sostegno del diritto allo studio, che al contrario attualmente vengono soffocate da illogiche contrazioni.

 

I dati parlano anche di una bassissima densità di atenei per milione di abitanti, di un pessimo rapporto tra il numero dei docenti  e quello degli studenti, della carenza di ricercatori e di un sottofinanziamento cronico che non autorizza ad anteporre le esigenze di spending review a quelle di un consolidamento complessivo degli investimenti sull’istruzione. Gli argomenti a favore dell’austerità, in particolare, si rivelano poco fondati quando evocano una presunta antieconomica proliferazione di atenei e di sedi distaccate, la cui esistenza resiste solo nella tenacia del luogo comune: al contrario, le storie di alcune sedi distaccate, come Feltre o Crema, rivelano le difficoltà di assorbimento da parte dei territori dei tentativi potenzialmente virtuosi di dislocazione strategica delle risorse e delle specializzazioni. Naturalmente si tratta soltanto di alcuni esempi tra i molti possibili di un fenomeno complesso, entro il quale le “università diffuse” possono rivelarsi anche doppioni poveri di sedi prestigiose, o realtà periferiche che affidano la propria “competitività” al ribasso dei costi di iscrizione (come accade prevalentemente al sud).

 

Tuttavia le dimensioni e la natura della crisi del sistema universitario autorizzano a pensare che, nonostante gli esiti infelici di qualche esperimento, gli sprechi dolosi, la cattiva gestione, le malversazioni, non sia auspicabile in questo momento chiudere le università o ridurre le risorse né, se non in alcuni casi specifici, limitare gli accessi con la pratica controversa del numero chiuso. Per la formazione di base come per gli studi avanzati e per la ricerca specialistica, le soluzioni che invocano restrizioni numeriche sono nel migliore dei casi illusioni ottiche, che non tengono conto della distanza tra gli investimenti italiani e quelli dei paesi più sviluppati. E se è giusto, e necessario, ragionare ad esempio sulla funzione dei dottorati, sulla loro natura professionalizzante al momento ampiamente frustrata, e cercare di immaginare nuove strategie di valorizzazione della ricerca, è sicuramente sbagliato affermare che il problema della ricerca è che se ne fa “troppa”: sono troppo poche, al contrario, le opportunità di impiego dei saperi complessi, troppo scarsa la capacità del sistema economico e produttivo di assorbire competenze avanzate.

 

L’istituzione universitaria non è mai diventata, in Italia, il luogo di formazione di una classe dirigente selezionata attraverso processi verificabili e condivisi. E la frattura drammatica che oggi separa la società dai propri rappresentanti politici e dai decisori in genere è riconducibile anche all’assenza di una autentica legittimazione pubblica della carriera di chi occupa le posizioni di comando. La via d’uscita dalla crisi attraverso la ricerca e l’innovazione esiste solo negli slogan da talk-show: la realtà è che alla crisi finora si è risposto colpendo proprio la parte viva della produzione della conoscenza, disattivando cosí i centri che potrebbero non solo elaborare una strategia per la ripresa, ma progettare un’alternativa alla riproduzione dei modelli di sviluppo che ci hanno condotto fin qui. Se i proclami sulla ricerca come motore della ripresa vengono disattesi, è anche perché alcuni centri di interesse cercano di contenere la possibilità che la conoscenza venga impiegata per modificare l’esistente.

 

Ci sono numeri che fotografano istantaneamente lo stato di sofferenza del sistema universitario nazionale, e altri numeri del tutto fuorvianti: i ranking internazionali, le famigerate “classifiche” che allineano i migliori atenei del mondo, sono strumenti di marketing, scientificamente inaffidabili. Si sta discutendo molto, in questo periodo, sull’elaborazione di sistemi adeguati per verificare e valutare la qualità effettiva della formazione e della ricerca universitaria in Italia, anche attraverso l’adeguamento agli standard internazionali. In attesa di misurazioni attendibili, tuttavia, l’impressione empirica è che dal punto di vista qualitativo il sistema dimostri una tenuta quasi miracolosa. La preparazione degli studenti resta elavata, l’importanza delle pubblicazioni in linea con le risorse investite, la capacità di sviluppare innovazione da parte dei ricercatori sorprendente in relazione alle condizioni di lavoro. E, secondo una tendenza diventata quasi strutturale, esportiamo talenti e competenze all’estero, dissipando cosí gli investimenti fatti per formare ricercatori che poi vanno a contribuire alla crescita delle economie (e delle culture) altrui.

 

Eppure i segnali incoraggianti, le sopravvivenze che andrebbero tutelate e dalle quali si dovrebbe ripartire, vengono frustrate dal tracollo della qualità, e soprattutto dell’utilità, nella percezione degli utenti, dalla completa svalutazione del sapere non solo e non tanto nell’economia reale, quanto nell’immaginario condiviso. Prima ancora di aver perso il valore effettuale che ne fa uno strumento di posizionamento professionale, la laurea ha perso l’aura del proprio prestigio sociale, l’appetibilità connessa al riconoscimento colletivo della conoscenza come valore.

 

“Son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato…”, rivelava Guccini: oggi, la razza di chi è escluso dal privilegio sembra aver rinunciato a vedere nell’istruzione uno strumento, seppure conflittuale, di emancipazione. E quel “primo” studente, nello spazio di una generazione, corre il rischio di diventare “l’ultimo”.

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