Il mito dell’identità

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di Tommaso Matano

 

“Rispondere alla domanda “chi?”, come aveva detto con forza Hannah Arendt, vuol dire raccontare la storia di una vita.”

 Paul Ricoeur, Tempo e Racconto III

 

Chi sei?

Se nessuno me lo chiede, lo so. Appena devo dirlo, però, cominciano i problemi. Dapprima dico il nome, il mio nome di battesimo. Ma ci si accorge subito che è una strategia per eludere il peso della domanda. Non sono il mio nome, il mio io non è questo. Come diceva Foucault, “il nome proprio, in questo gioco, non è che un artificio”.

Il mio io non è già più un io, non appena lo dico: diventa un sé.

Rispondo alla domanda “chi sei?” affidandomi allo scarto del linguaggio: il soggetto che parla di sé sta parlando di una terza persona. La risposta alla domanda “chi sei?” sta tutta nella distanza che il discorso articola, spingendo il soggetto a uscire dalla sua chiusura autoreferenziale, spremendolo nel mondo. “Chi sei?”, mi chiedete, e non posso cavarmela con un semplice nome.

Io sono il soggetto delle mie azioni. Io sono il soggetto di una storia.

 

Cosa accade nel racconto autobiografico? E’ la stessa persona quella che parla e che è parlata? Chi è che si muove nei propri ricordi, chi è quel bambino al suo primo giorno di scuola, nella memoria che lo dispiega, chi è quel bambino che prende vita solo in virtù del suo esser raccontato? Fletto la mia autocoscienza nel tempo e nello spazio: chiedo a mia madre della sua gravidanza, di quel tempo intercorso prima che nascessi. Di chi stiamo parlando, chi è questa entità negata e conservata dalla vita nella forma che attualmente io rivesto? Tutti i discorsi che posso fare su di me si stringono in nodi aporetici che possono essere tagliati via soltanto se si prende in prestito dalla simulazione una strada per raggiungere una forma di coerenza. E’ il testo, la letteratura, che ci insegna il modo in cui si risponde alla domanda “chi sei?”. Per Maurice Blanchot, “scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona”, e infatti è dalla narrazione che imparo a raccontare la storia di chi sono, imparo a farmi personaggio, cioè ad essere nel tempo. La domanda “chi sei?” esigerebbe, in altre parole, una risposta analogica: parlare di sé come se si fosse dentro un libro.

 

L’aspetto interessante della faccenda è che i nuovi media fanno continuamente appello alla nostra identità. I dispositivi ci chiedono come ci chiamiamo: l’iphone è di Qualcuno, così come il profilo Facebook o Twitter. Ma gran parte della vita online si ciba di falsità: le nostre credenziali d’accesso su internet non godono di tutto questo credito. Username, nickname, profili fittizi: la Rete ci chiede di identificarci in continuazione, e in continuazione noi l’accontentiamo, squartando il nostro io in un proliferare di avatar, specchi e maschere.

Leggo un articolo che mi interessa, voglio commentarlo. Il sito mi avvisa che il commento è automaticamente collegato a Facebook e dunque Stai pubblicando come Tommaso Matano. Fa bene a ricordarmi il mio nome, perché in quel momento io potrei essere chiunque. Il dispositivo di scrittura e di condivisione mi fa passare ripetutamente dalla prima alla terza persona. A Tommaso piace questo elemento. Leggo il mio nome scritto dappertutto, dice delle cose, viene tirato in ballo nelle discussioni. A volte è associato a una foto in cui ci sono io. Il testo mi è perennemente davanti, e io mi comprendo davanti al testo, come voleva l’ermeneutica, ma è un ipertesto mastodontico e volatile, io sono continuamente l’alienazione di me stesso, mi nego, e sono, nell’esser-nella-Rete: la mia debordante soggettività sgocciola io ogni volta che sfioro la tastiera.

Scrivo e leggo una storia, la mia storia, fatta di brandelli, di luoghi e tempi che non appartengono all’umanità al di qua dello schermo: ho commentato questo, ho apprezzato quello, ho partecipato a questo, ho suggerito quello. Ho lasciato tracce ovunque, ma esse si collocano in una memoria intersoggettiva che ha il carattere della Storia più che della storia, perché è troppo enorme per riguardare solo me. Imparo a conoscermi come un sé, come una terza persona: la Rete è lo specchio e l’immagine che mi restituisce è il mio sé.

Il selfie moltiplica il gioco di riflessi all’infinito. Fisso l’abisso del mio io come Narciso, e l’Altro e il Medesimo si contagiano in una vertigine di ripetizioni: è la mia foto di me stesso sulla mia pagina. Photoshop offre a quel mio ritratto perpetuo un’illusione mefistofelica degna di Oscar Wilde, e intanto il dispositivo impersonale che fa le veci del mondo mi incoraggia in ogni istante a scrivere la mia autobiografia: Scrivi qualcosa su di te, A cosa stai pensando?, Scrivi un commento…

La sfida della risposta alla domanda “chi sei?” diventa ancora più difficile. Facebook ha il buongusto di non chiedermelo, sa bene l’enormità della questione. Mi chiede delle “informazioni”, o di “identificarmi”, perché il problema dell’identità deve darlo per scontato, lascia che sia io a decidere chi sono. Ma io sono anche la storia di me che tutti i giorni scrivo, sono i sassolini che lascio alle mie spalle nella ‘cronologia’, sono una persona (che originariamente vuol dire maschera) virtuale, cioè, al fondo, reale ma non attuata. La mia vita interconnessa e costretta alla perenne reperibilità è un’operazione continua di scrittura e riscrittura, uno scarabocchio concentrico e un’instancabile pubblicità, un cielo di carta che si rompe e si ricuce impazzendo tra il dentro e il fuori dei mondi in cui contemporaneamente mi trovo, e forse è proprio questa estensione infinita degli spazi e dei tempi a indebolire il soggetto. C’è un genio maligno incorporato al mouse che fa di tutto per ingannarmi, e a questa fragilità rispondo trasformando ogni ecolalia in egolalia. Specchio e vetrina si confondono, il mondo dei lettori si assottiglia e scompare in questo regime della scrittura, del passaggio, della testimonianza.

 

Però è proprio di questo che si tratta. E’ qui che è in gioco la risposta alla fatidica domanda “chi sei?”, in questo processo narrativo in cui ci scopriamo personaggi di una vita che non è un racconto (infatti non ha né inizio né fine) ma che dobbiamo immaginare come se fosse un racconto.

“Devant le papier, l’artiste se fait” ha detto Mallarmé, ed ecco qual è la risposta: che l’identità non è una risposta, ma il lavorio perpetuo messo in moto dalla domanda “chi sei?”.

Se la domanda sull’identità non viene più posta da un soggetto, bensì da un’entità impersonale, allora ogni seconda (e terza) persona finisce per essere un semplice ripiegamento dell’io. Il “tu”  delle domande che Facebook mi rivolge è una farsa, un gioco prospettico attraverso cui io mi servo del dispositivo per parlare di me.

Ma un io senza il tu non è identità. E’ un mito.

 

 

 

 

 

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