the end 2b

di Simonfrancesco di Rupo

Scrivere un articolo polemico sulla fine del mondo è forse fra i compiti più facili di sempre, se si considera che nel caso in cui il mondo davvero finisse il 21 dicembre, questo articolo datato 20 dicembre non potrebbe mai suscitare chissà quale sdegno.
Detto questo, l’interesse verso il problema appartiene ad un’altra categoria di ragionamenti.

Già solo il semplice dato che la nota data di disfatta universale possa avere come appellativo “fine del mondo” lascia molto a che pensare. Questo “mondo” lasciato come “il”, risulta come un determinativo già accettato in quanto perimetro in cui ci si muove: “il mondo” sarebbe appunto quel qualcosa che purtroppo lasceremmo, qualcosa di molto più importante della “storia”, del “tempo”, del “senso”, dell’ “universo” e, ancor più, dell’ “essere”. In questa delimitazione molto precisa che il dire comune specifica,  già si racchiude l’anoressia della nostra fame di coscienza cosmica ed esistenziale.
Il “mondo”, per come lo appelliamo, spesso altro non è che la somma delle azioni collettive attraverso le quali riconosciamo il nostro agire come conforme a un gioco condiviso. Eppure il “mondo”  potrebbe a buon vedere riguardare piuttosto il senso che il tempo acquisisce alla luce dell’esistenza umana in tutte le sue epoche. E questa data esistenza, appunto, da sempre non fa altro che scompaginare le carte in tavola, riguardo la domanda sul senso della storia. Il mondo quindi non è solo ciò che ci accade e che potrebbe finire, quanto piuttosto ciò che finiamo mentre ci accade di essere.
Noi  “finiamo” il mondo, dunque, mentre lo de-finiamo.

Proprio mentre ci accorgiamo che la fine del mondo è qualcosa tramandatoci da “i Maya”, con lo stesso pettegolezzo mentale che ci permetteremmo di fronte a una nostra ipotetica madre nel dire “mamma oggi a scuola i fratelli Maya hanno detto che finisce il mondo”,  annidiamo i nostri timori in un passato esotico che non conosciamo e non riconosciamo, dando al futuro la patente di una menata stabilita da gente bizzarra e mal vestita del passato che sicuramente aveva più tempo di noi per parlare del tempo.
Eppure, al di là di questa folkloristica versione che ci creiamo riguardo l’indirizzo del cosmo, una coscienza importante potrebbe sopraggiungerci, con buona pace delle rosticcerie e dei pub che hanno bisogno della fine di Tutto con un ultimo menù “di sempre” per poter avere clientela il penultimo weekend del 2012.
La Storia vuole che, per un bizzarro gioco di dadi del destino, certe cose si ripetano. Così come inspiegabilmente ci sarà sempre chi si scaccolerà il naso al semaforo, o così inspiegabilmente ogni persona entrata in chiesa congiungerà sempre le mani al pube come fosse in barriera a calcio (forse temendo appunto una “punizione”), altrettanto puntualmente l’uomo nel corso della sua storia, si è posto la domanda circa “la fine”.

Il punto che tradizionalmente lega questa domanda è il seguente: “la fine” dell’uomo coincide con un suo “fine”? Senza attendere Voyager o i volantini delle discoteche, già da millenni l’uomo ha avuto molti 21 dicembre 2012 senza fare troppe burlonate. Proprio il “millenarismo” fu quella spiccata tendenza a legare, tradizionalmente, un concetto di fine della storia a una data ben precisa. Eppure anche per quanto concerne il significato dell’Apocalisse giovannea, il senso comune è riuscito ad attribuire ad un evento di purificazione universale (o cosiddetta Parusìa, intesa come evento di  compimento di una plenitudo temporum) la cifra di un disastro umano per il quale tutto ciò che si è abituati a conoscere, finirebbe.

Esseni, gnostici, montanisti nella nostra tradizione (e nonostante Montano si facesse accompagnare da due fanciulle nelle sue profezie, per la cronaca Priscilla e Massimilla, non si sta parlando del nostro Aldo Montano: la storia vuole che si tratti dell’anno 157) hanno espresso l’esigenza di collocare un disegno teologico unitamente a un disegno teleologico, ossia un punto di congiuntura fra il divino e una finalità del suo creato, accompagnati dalla tacita concordia di forme religiose più o meno riconosciute, come accade in maniera più morbida, in Agostino, che proprio in questa chiave comparatista andrebbe ora riletto, con molto interesse. Eppure ad oggi, certe forme di interpretazione del decorrere dell’umanità, non paiono più collocabili in un panorama denso di significati di previsioni, paure e aspettative, così come di riletture: sarebbe ben curioso paragonare la burla di questi giorni sul 21 dicembre con il concetto che Paul Tillich, da buon teologo protestante, ci consegna riguardo le grandi epoche di “concentrazioni d’ansia”, intese come scansioni di tempo attraverso le quali l’uomo ha la tendenza di legare a certe paure utopiche e distopiche la recezione del tempo secondo una patogenesi ben riconoscibile, eppure qualcosa di molto più banale sembra sempre bussare alla porta del nostro quotidiano.

La nostalgia di un patrimonio del tempo passato o l’aspettativa di un tempo a venire dotato di senso si tramutano in una melanconia asettica che non porta più il lutto per il fatto che ogni cosa abbia fine o la gioia per il perpetuarsi naturale della rinascita: conserviamo solo un risentimento muto verso la scomparsa e la nausea  verso il perenne al punto di neutralizzare l’esigenza stessa di una disaffezione sentita e sincera verso la stupidità del presente – di ogni presente – condizione imprescindibile per la costruzione personale e collettiva di qualsivoglia concetto di “storia”.
Non proprio il “motivo”, ma sì il clima di fondo è presto spiegato: la laicizzazione e la desacralizzazione che si producono nella cosiddetta “società tecnologica” (termine forse un po’ novecentesco!)  privano la vita sia individuale che collettiva da quegli aspetti semantici del mistero tipici della tradizione. In tale contesto le ansie, le insicurezze e le paure dell’umanità incontrano la loro esorcizzazione mediante la rimozione dei contenuti simbolici delle “grandi narrazioni” – come direbbe Lyotard – per specificarsi in un meccanismo collettivo di simbolizzazione della “vita” nel suo concreto più immediato, vedi per la virtualizzazione incontrollata dei comportamenti sociali, vedi altrimenti nel progressivo disilludersi dello stesso bisogno, di una salvezza. Perché da cosa bisogna salvarsi non si sa più. “Là dove c’è il pericolo cresce ciò che salva”, dice il buon Holderlin amato e armato da Heidegger. Ma probabilmente sarebbe il caso di dire che là dove qualcosa potrebbe salvarci, non ci si rammenta più quale sia il pericolo. In questo senso anche la bestemmia è cambiata: da insulto verso un’autorità ha preso la veste di un racconto breve a chiosa dell’inesistente.

E’ proprio in questo quadro che la bestemmia acquisisce la sua massima potenza: proprio nel momento in cui Dio non è più accreditato come diretto e riconosciuto responsabile di un disegno, che si prende in giro lo scarabocchio in quanto scherzo della mano tremolante del destino. E’ quando non si insulta più nessuno e si ride di tutto che la violenza prende piede contro ignoti e quindi contro tutti. Eppure il disegno è pur sempre lo stesso: è l’attualità di turno a riconoscervi la leibniziana “armonia prestabilita” o il suo getto di Picasso e, purtroppo, ogni volta l’una versione sarà avversa all’altra. Sarà sempre la stupidità dell’uomo a fare la differenza con il conto generico che dobbiamo al bancone delle domande, e la risposta sarà sempre una forma di debito che avremo con il grande bicchiere dell’Essere. Costituire il sindacato dello “sciopero degli eventi” di Baudrillard è forse un interesse nobile che dovremmo coltivare.

Il 21 dicembre sfinisce il mondo, perché solo questa volta ci stiamo concentrando su una fine che dovrebbe essere messa a giustapposizione di ogni nostra giornata. Come dice Leopardi: “ Avanti, non sei solo, non sei il primo, non sei l’unico, ma stai in una immensa schiera che marcia, e che solo per una parte infinitamente piccola è composta attualmente di viventi”. Buon 22 dicembre a tutti.

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