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“Innovazione” è la ventunesima e, necessariamente, ultima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti, pubblicato in collaborazione con Città intelligenti. Abbiamo fatto ventuno, come ventunesimo è il secolo che ci sta portando nel futuro a suon di spintoni. Alle rapide certezze delle “magnifiche sorti e progressive” abbiamo provato a opporre l’esitazione della pensosità: per tornare ad affermare, con uno slogan platonico, che innovare è conoscere.

 Ciò che hai ereditato dai padri
Acquistalo per possederlo!
Ciò che non serve è un carico pesante;
Solo ciò che l’attimo crea, esso può utilizzare.
Goethe, Faust, I, 682-685

Esiste una differenza tra “innovare” e “innovazione”? Torniamo per qualche riga all’etimologia: in-novare, cioè “rendere nuovo”, rimanda alla novità del “nuovo” la cui radice è antichissima e largamente comune alle lingue indoeuropee per indicare tutto ciò che è giovane, recente, che è nato da poco, che non è vecchio ed è… nuovo, appunto, il νέος greco. La dialettica interna al termine, però, quella che mette a contatto in un divenire innovazione e arcaicità, si è persa nel momento in cui “innovazione” ha iniziato a legarsi, nel linguaggio comune, quasi esclusivamente all’idea di “tecnologia”, di téchne. Per qualche riga facciamo un passo ancora più indietro, e precisamente al Cratilo di Platone, dialogo che investiga la correttezza dei nomi”, vale a dire la relazione tra un nome e il suo referente, mettendo in discussione se questa relazione sia di tipo naturale o convenzionale. Nella lunga galoppata “etimologica” del Cratilo, che è pure una specie di piccola enciclopedia della cultura greca del tempo (IV secolo a.c.) Socrate ci dice, tra le varie etimologie più o meno fondate che va ricostruendo: Del resto, ancora, la stessa νόησις (= lo stesso pensiero) è τοū νέου έσις (= desiderio del nuovo), ed essere νέα (= nuovi) per gli enti vuol dire essere sempre γιγνόμενα (= in divenire): pertanto colui che assegnò il nome di νεóησις (neóesis), indica che l’anima tende a questo(Cratilo, 410 E – 412 A). “Innovazione” oggi, al contrario, si è sostanzializzata, reificata, e la parola non evoca più la mobilità fluida del processo conoscitivo, del tendere a qualcosa che, dinamicamente, non c’è ancora quanto a qualcosa che è il risultato di un processo. Ogni processo conoscitivo è, di per sé, innovazione. Detto con uno slogan “platonico”: conoscere è innovare. Quel che si è depositato nel termine, invece, soprattutto negli usi attuali più discorsivi, è qualcosa di ancora – per me – profondamente ottocentesco: l’innovazione è tale se risulta essere qualcosa di esportabile industrialmente, riproducibile in serie (le sedie di legno curvo di Thonet a metà Ottocento). L’illusione della “democraticizzazione dell’innovazione”, infine, si condensò in una celebre frase di Henry Ford, usata anche in tempi recenti come claim pubblicitario: “C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Ma a quale costo? E chi sono questi “tutti”?

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5 Comments

  1. Massimo Bocchia marzo 28, 2013 Reply

    Caro Mat,
    è forse interessante pensare anche all’obsolescenza programmata dei beni tecnologici. In sostanza, le cose “nuove” sono costruite per durare non oltre un certo periodo di tempo, non si riparano e si buttano se rotte/difettose sostituendole con altre (e nuove, nuovissime) cose, ma anche loro ad obsolescenza programmata.

    L’innovazione, quindi, è nel non riparare le cose, nel concentrare la conoscenza delle cose in chi produce le cose stesse, e senza vi sia bisogno di chi è in grado di risolvere piccoli o grandi problemi di riparazione specifica. Innovazione, insomma, che si risolve ed esaurisce alla fonte (produzione) e interrompe quegli sviluppi e approfondimenti di conoscenza che solo la presenza di un malfunzionamento od errore è in grado di creare.

    Detto in altre parole, la muffa di Fleming non può più attirare nessuna attenzione di ulteriore conoscenza, bensì si butta la via capsula di Petri e se ne compra subito un’altra, perfettamente asettica, priva di muffa. Con buona pace di tutte le penicilline non scoperte.

    Un abbraccio
    MB

  2. Author
    Matteo marzo 28, 2013 Reply

    Anche il dna è una forma di obsolescenza programmata :)

  3. Massimo Bocchia marzo 28, 2013 Reply

    Non proprio, Mat: altrimenti il dna avrebbe una durata costante e prefissata per la maggior parte di noi (e mi pare invece che la variabilità sia notevole). Parlerei piuttosto di una replica programmata, stile pecora Dolly.
    PS – peraltro hai fatto caso come si tace sugli studi di clonazione, e non solo di pecore?
    PPS – tua provocazione comunque accolta, e, come hai notato, bypassata. 😉

  4. Author
    Matteo marzo 29, 2013 Reply

    Intendevo che, per ognuno, il proprio dna ne programma l’obsolescenza in un certo senso. Ma non sono così determinista da pensare che nel dna stia racchiuso tutto il nostro destino. E credo nel libero arbitrio. Questo mi conforta anche in relazione al movimento 5 stelle. Si trasformerà col tempo, per obsolescenza programmata 😛

  5. Roberta novembre 29, 2013 Reply

    Pensando anche alla Rural social innovation,oggi innovazione non è più sinonimo di nuovo ma di societing!

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