il bureau - Vem pra rua

di Mario Pireddu

Dall’11 al 17 giugno sono stato per lavoro a São Paulo, la megalopoli brasiliana nella cui regione metropolitana vivono circa 20 milioni di persone. Da qualche anno vado in Brasile per convegni e seminari, e questa volta ero lì per partecipare a un congresso internazionale sul libro digitale che si è tenuto non lontano dalla centrale Avenida Paulista, una delle più importanti della città. Proprio a ridosso della Paulista c’è anche l’albergo in cui ho soggiornato per qualche giorno, che si trova vicinissimo al Museu de Arte de São Paulo (MASP), luogo principale degli scontri durante una delle manifestazioni, quella del 13 giugno. Rientrato in hotel dopo il primo giorno di convegno, mi sono trovato verso l’ora di cena tra i manifestanti e la polizia: la strada dell’albergo e le vie limitrofe, di giorno abitate dalla frenesia della vita lavorativa paulistana, si sono trasformate in teatro di scontri con lacrimogeni, cassonetti dati alle fiamme, cariche delle forze dell’ordine e manifestanti in fuga.

Da due settimane le strade di molte città brasiliane, non solo di quelle più grandi, sono il teatro di imponenti manifestazioni popolari che rivendicano prezzi più bassi per il trasporto pubblico e meno investimenti pubblici nella costruzione di stadi per i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016. Questa, in sintesi, la notizia che apprendiamo da tg e quotidiani qui in Europa. Ciò è però solo parzialmente vero: infatti i motivi alla base delle proteste sono molti di più, e il luogo delle manifestazioni non è la strada – o per essere più precisi non è soltanto la strada (ma a questo arriviamo tra poco).

Mentre scrivo queste righe a Roma si sta giocando la partita Italia-Brasile nella città di Salvador, nel Girone A della Confederations Cup, torneo calcistico tra le squadre nazionali che hanno vinto le ultime edizioni dei tornei continentali organizzati dalla FIFA, l’organizzazione di governo del calcio mondiale. Il Governo brasiliano ha disposto lo schieramento della Polizia Militare a protezione della gara, anche per confermare alla FIFA e al mondo che i Mondiali del prossimo anno si terranno come previsto in Brasile. Gli eventi delle ultime due settimane, infatti, con proteste indirizzate anche contro le enormi spese sostenute dal Brasile per gli stadi di calcio, hanno fatto pensare all’eventualità di cambiare sede dell’evento.

Date le ripetute visite in Brasile seguo da un po’ di tempo le vicende del paese, e anche grazie alle discussioni con amici e contatti brasiliani conoscevo da un po’ a grandi linee il perché delle proteste a cui ho assistito. Certo, c’entra il recente aumento del prezzo del biglietto del trasporto pubblico da 3,00 R$ a 3,20 R$ (il real brasiliano equivale all’incirca a 0,34€), così come c’entra l’indignazione verso le spese enormi sostenute dal governo per la realizzazione di modernissimi stadi per i giochi. Ma le proteste nascono perché il costo della vita da qualche tempo continua ad aumentare in modo indiscriminato (e questo nonostante la crescita economica abbia subito un rallentamento), e perché molte persone trovano immorale l’investimento pubblico in stadi avveniristici in un paese con sanità e educazione pubbliche allo sfascio. Come ripetono molti cittadini brasiliani: “non si possono avere stadi da primo mondo e ospedali da terzo mondo”.

In uno dei video che circolano sui social network in questi giorni,

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la videomaker Carla Dauden spiega in inglese perché non andrà a vedere i Mondiali, ricordando che le spese per la Coppa del Mondo ammontano a circa 30 miliardi di dollari, più di quanto siano costate nel complesso le tre precedenti edizioni. Il video, girato prima dello scoppio delle proteste, sottolinea che queste spese vengono disposte in un paese in cui l’analfabetismo raggiunge livelli del 10% (con punte di 21%), in cui circa tredici milioni di persone soffrono la fame, e moltissime persone muoiono per assenza di cure mediche. “È un paese che ha bisogno di altri stadi?”, chiede la Dauden.

  • Educazione

C’è una cosa che ho imparato durante le mie visite in Brasile: l’educazione pubblica di base continua a non essere oggetto degli investimenti governativi. Affidata alla volontà e all’impegno dei singoli docenti, che lavorano con salari bassissimi, riceve pochi finanziamenti e resta molto distante dal livello dell’offerta privata. Si arriva così allo strano paradosso che vede invece le università pubbliche offrire gratuitamente percorsi di studio e di ricerca di alta qualità a pochi studenti selezionati, che però quasi sempre provengono dalle fasce più ricche della popolazione, perché a superare i test di ingresso sono coloro che hanno frequentato le scuole private e hanno potuto beneficiare di una istruzione migliore. In altri termini: a livello formale è garantito a chiunque il diritto di provare a diventare studente delle università pubbliche, ma in pratica si è davanti a un meccanismo che discrimina fortemente i meno ricchi a favore dei più abbienti. I soldi pubblici vengono così utilizzati per far studiare gratuitamente i figli delle famiglie più ricche.

  • Sanità

Per la sanità il problema è simile: cure mediche di qualità si hanno unicamente se si ha la possibilità di pagarle, con prezzi elevatissimi e non accessibili alla maggior parte della popolazione, che deve rivolgersi alle spesso fatiscenti strutture pubbliche.

  • Stipendi e pensioni

In Brasile lo stipendio minimo è fissato per legge a 670 R$ (circa 225 €), ma la media delle retribuzioni si aggira intorno all’equivalente di 400  €, e le pensioni per la maggior parte delle persone sono talmente basse che si è costretti a lavorare anche dopo il pensionamento, a volte cercando altri lavori, come mi ha confermato anche l’anziano ricercatore di biologia che nella nuova veste di autista mi ha accompagnato all’aeroporto.

  • Corruzione

Le richieste per educazione e sanità pubbliche di qualità si accompagnano all’indignazione per gli alti tassi corruzione del sistema partitocratico brasiliano. In molti hanno fatto notare come l’aumento del prezzo dei biglietti dell’autobus sia una misura che colpisce direttamente chi ha meno disponibilità economiche. Le persone che possono permettersi l’automobile, infatti, non utilizzano i trasporti pubblici, spesso visti come inadeguati, e finiscono per creare quella mostruosità che è il traffico paulistano. Le politiche governative degli ultimi decenni hanno sempre incentivato l’automobile e non il trasporto pubblico (chi vive a Roma sa di cosa sto parlando, anche se la dimensione del problema non è paragonabile, e a chi si lamenta del traffico romano consiglio di trascorrere qualche giorno a São Paulo). C’è chi dice per un malinteso ideale di progresso (“ordem e progresso”, ripete la bandiera brasiliana), c’è chi dice per finanziamenti ai partiti da parte delle industrie automobilistiche. Le persone più abbienti, poi, si spostano all’interno della città non con i taxi, che pure sfruttano le corsie preferenziali, ma con gli elicotteri, che diventano familiari dopo qualche giorno in città. São Paulo è la città al mondo con il più alto utilizzo di elicotteri per il trasporto intraurbano.

Alla metà del primo tempo della partita, le immagini di Rai Uno mostrano gli scontri tra polizia e manifestanti all’esterno dello stadio. I cronisti sottolineano la presenza di giovani dal volto coperto, ma a me vengono in mente i fischi ricevuti dalla Roussef e da Blatter nello stadio Nacional di Brasilia, durante la cerimonia inaugurale della Confederations Cup, che ho visto mentre ero a São Paulo. In seguito a quei fischi, i tifosi sono usciti dallo stadio e hanno applaudito i manifestanti all’esterno, alle prese con la polizia e i lacrimogeni.

  • Stereotipi

“Ascolto tutte le persone che sono scese in strada per manifestare pacificamente, ma il mio governo non può tollerare la violenza, che sta dando una cattiva immagine del Brasile”. Così la presidente Dilma Roussef nel suo recente discorso alla nazione, evidentemente conscia del ruolo dell’immaginario nella costruzione della reputazione di un paese. Un problema non da poco, come fanno notare molti brasiliani, è che l’immagine del Brasile che il resto del mondo condivide spesso è molto lontana dalla realtà dei fatti. Se prendiamo l’Italia, per esempio, notiamo subito che del Brasile tutti i media tradizionali – compresi i quotidiani più attenti alla cultura e all’impegno – offrono sempre una immagine stereotipata, quasi da anni ottanta: oltre il calcio (onnipresente, e si può notare da un rapido sguardo all’hashtag “Brasile” su Facebook), c’è una cartolina in cui tutti fanno festa in spiaggia o sono impegnati a spogliarsi per il Carnevale, un paese in cui sì, ci sono milioni di persone povere che però, a dispetto della miseria, “sanno ancora sorridere e sono sempre felici”. Un mito del buon selvaggio duro a morire, e che probabilmente i politici brasiliani cercano di gestire puntando le telecamere sugli avveniristici stadi pensati per i due grandi eventi internazionali.

I manifestanti hanno ottenuto finora il blocco dell’aumento dei biglietti per il trasporto pubblico, e le recenti dichiarazioni della presidente Roussef sui futuri investimenti nell’educazione pubblica e sulla sanità (con la discussa promessa di importazione di medici stranieri). Le manifestazioni però continuano e continueranno, e da quel che si può vedere in rete e nei social network, le persone si sentono sempre più motivate a non abbandonare quel che si è costruito nelle ultime settimane. Una idea diversa del paese, della vita in comune, del futuro.

  • La rete, le reti

La verità è che tutto questo non sarebbe mai potuto accadere senza Internet: il fatto che le manifestazioni si presentino come apartitiche è indicativo del rifiuto, da parte di moltissime persone, di continuare ad accettare i meccanismi e le storture della democrazia rappresentativa. Si è a lungo discusso del ruolo della rete e dei social network durante le rivolte nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (Iran, Tunisia, Egitto, Libia, etc.), ma quel che accade ora in Brasile costringe a un altro tipo di riflessione. Anche in Brasile, infatti, come già in Spagna o in Turchia, i manifestanti criticano la democrazia e non la dittatura. Il Brasile peraltro una dittatura militare l’ha già vissuta, e le manifestazioni di questo inizio d’inverno (che è iniziato il 21 giugno in Sud America) sono l’unico momento di aggregazione collettiva da decenni. Il ruolo dei partiti politici appare non solo sempre meno importante, ma per molti è l’intero sistema rappresentativo a essere messo in discussione. In questo sistema la corruzione e l’interesse di pochi sono la regola e non l’eccezione. Non sembrano casuali a questo proposito le dichiarazioni del premier turco Erdogan, che vede nelle proteste brasiliane il frutto di una “cospirazione internazionale”: lo stesso Erdogan aveva sostenuto qualche settimana fa che social network come Twitter sono un male per la società.

Non ci sono più leaderismi, programmi politici predefiniti, strategie verticali, ma centinaia di micro e macromotivazioni che trovano combinazione e ricombinazione nel sentire emergenziale. Le manifestazioni nascono e vivono contemporaneamente in rete e nelle strade, e sembrano fare a meno del retaggio ideologico novecentesco: se prima la conflittualità veniva incanalata e gestita attraverso partiti politici e sindacati, con logiche comunicative centralizzate e verticali speculari a quelle dei mass media (giornali e tv), ora sono le reti digitali e i social network a farsi ambiente di comunicazione e di vita (mai come ora si fa concreta l’etimologia del verbo “comunicare”, che rimanda al rendere comune e al donare). I flussi comunicativi sono ora decentralizzati e consentono alle persone di farsi esse stesse produttrici di informazione, partecipando così ai più ampi processi sociali di costruzione di significato. È per questo motivo che tra i manifestanti si trovano studenti e docenti, lavoratori e disoccupati, bianchi, mulatti, neri, italiani e giapponesi, indios, omosessuali, etc (a São Paulo circa cinquemila persone hanno manifestato contro l’omofobia e contro la Cura Gay, progetto di legge caro alla Chiesa evangelica brasiliana e approvato dalla Commissione Diritti Umani del Parlamento, che definisce l’omosessualità una malattia e che prevede un trattamento psichiatrico per i gay).

In Brasile, grazie anche alla crescita economica che resta un dato di fatto, negli ultimi anni il numero di cittadini connessi alla rete è aumentato costantemente, e con esso l’abitudine all’uso di blog, wiki, social network, app per dispositivi mobili, e di tutti gli applicativi che implicano non solo fruizione ma anche partecipazione diretta. Non si possono comprendere le manifestazioni brasiliane se non si ha ben chiaro il passaggio dalla società di massa alla società in rete: nella transizione dai media analogici alla telefonia mobile e ai social network – come spiegano da anni gli studi sulla comunicazione e la mediologia – si consuma il mutamento di antropologia che la sociologia tradizionale e la politica dei partiti fanno fatica a inquadrare.

Anche Anonymous Brasil sta partecipando attivamente alle proteste, attaccando e oscurando diversi siti governativi. Molte persone che pure partecipano alle manifestazioni cercano di ridimensionare la prospettiva apartitica, sostenendo che è necessario ricondurre le ragioni di chi protesta alle logiche della democrazia rappresentativa, e che altrimenti si rischia di dar vita a un movimento “di destra”, “fascista” o “populista”. Da questo punto di vista le manifestazioni sarebbero invece “naturalmente di sinistra”, ma quel che questo tipo di visione non coglie è la radicale diversità delle condizioni comunicative e dunque della stessa partecipazione popolare. Prima c’erano assembleismo, reclutamento tramite organizzazioni gerarchiche, militanti obbedienti pronti a fare da agenti all’interno della “massa” per darle una direzione: ora siamo davanti a forme di attivismo interattivo, nel quale ognuno compare e partecipa secondo la propria discrezione, anche disobbedendo a chi pretende di dare disposizioni, ed esprime malcontento per una o più componenti di un sistema che ritiene vecchio e inadeguato. La logica comunicativa e partecipativa non è più verticale, monolitica e strategica, ma è una logica di flusso, plurale e persino effimera, che si alimenta del presente e non prende corpo intorno a ideologie. Per Massimo Di Felice, docente alla Universidade de São Paulo e mediologo, la democrazia del Brasile sta passando dalla sua dimensione pubblica televisiva, elettorale e rappresentativa, a una dimensione pienamente digitale e connettiva.

Io stesso, una volta rientrato in albergo, ho continuato a seguire fino a notte fonda la manifestazione da due finestre: quella della mia stanza, con polizia e manifestanti per la strada, e quella del browser attraverso il quale seguivo in diretta gli account dei miei contatti brasiliani su Facebook e gli hashtag relativi alle manifestazioni su Twitter. Flussi continui di commenti, foto, video, riflessioni a caldo e a freddo: una realtà aumentata connessa alla realtà della strada ma per certi versi molto più complessa, perché è lì che si costruisce il sentire comune dei manifestanti e dei non manifestanti (il filosofo Pierre Lévy a questo proposito si è più volte espresso a favore del cosiddetto “Sofa Activism”, l’attivismo da poltrona di chi partecipa da casa alla costruzione di significati condivisi). C’è chi ha scritto che, a São Paulo, Facebook e Twitter sono state le strade, letteralmente.

È anche per questo che l’intelligence militare brasiliana, secondo alcuni quotidiani, sta sorvegliando i social network e le applicazioni come Whatsapp allo scopo di evitare “atti di vandalismo”.

Da questo punto di vista, i tentativi di ricondurre tutto alla classica opposizione sinistra vs destra appaiono non solo poco lucidi ma anche lontani dalla realtà di quel che sta accadendo e poco utili. La rete in questo caso produce differenze e non unità: le persone che si sono accampate nelle piazze spagnole, quelle che manifestano in Turchia e per le strade del Brasile e abitano i social network popolandoli delle proprie istanze (anche questo è un termine che dovremmo forse abbandonare) non sono riconducibili a un partito o a una precisa ideologia politica. “Autocomunicazione di massa” per alcuni, “mezzi di comunicazione di massa per le masse” per altri: ci aggrappiamo a denominazioni note per descrivere qualcosa che non riusciamo del tutto a inquadrare. Sciami, smart mobs, hashtag, a cui si accompagnano etiche connettive e mutanti, persino poco coerenti se analizzate con lo sguardo positivista del razionalismo politico.

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Le manifestazioni brasiliane sembrano essere interessanti anche per altri paesi del Sud America: nella capitale paraguaiana Asuncion, tremila persone hanno sfilato venerdì per le vie del centro e si sono riunite davanti al palazzo del Congresso per denunciare gli aumenti delle pensioni dei deputati e la corruzione della classe politica del paese. Su Facebook, attivisti di gruppi messicani paventano una seconda rivoluzione messicana postando immagini e commenti relativi alle manifestazioni brasiliane.

La partita Italia-Brasile è finita 2-4, il Brasile ha vinto ma molti brasiliani non hanno visto la partita e sono rimasti per strada. L’impressione è che, come cantava Chico Buarque in Apesar de você, siamo davanti a qualcosa di affascinante e destinato a non morire subito: àgua nova brotando e a gente se amando.

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