il bureau - Bobi Raspati - Note Dolenti

di Bobi Raspati

Il Natale è passato, crisi o non crisi. Gli avanzi sono ormai impresentabili, e comunque non se ne può più di quella sbobba. Chi ha dato ha dato: è ora di buttare la monnezza. Fuor di metafora, visto che la classifica dei meglio dischi del 2011 l’abbiamo già fatta adesso tocca fare i conti col peggio del peggio. La materia prima abbonda, e allora limiteremo la nostra trattazione al putridume di casa nostra.

Nella scorsa puntata abbiamo riflettuto sui malleabili caratteri del mercato discografico d’oggi. La rete ha mischiato le carte e parlare di indipendenti e major è un vezzo retrò. Infiniti pubblici e infiniti stili, e a ciascuno il suo: fai quel che vuoi fare, e se lo fai bene troverai il tuo recensore e il tuo canale di distribuzione. Da noi le cose funzionano in modo diverso, specie per quanto riguarda la musica autoctona. Poche riviste e poche idee, e una gran ressa per accaparrarsi le grazie del pubblico generalista. E cioè quel tizio che venera i cantautori che furono, paga 100 euri per vedere i cadaveri dei Radiohead e si sente un intenditore per il solo fatto di detestare Tiziano Ferro.

Che sia un atto volontario o no, il convergere dei nostri musicisti indie verso un ideale di cantautorato serioso buono per tutte le stagioni più che convincere scontenta. Per uno che riesci a sedurre altri cento ti infamano o ti ignorano, spesso a ragione. Gli esempi abbondano. IOSONOUNCANE (bau) disinnescato da una produzione timidissima e sciatta, che tanto va bene uguale e comunque si caschi finisci al Tenco. I Cani (bau bau) quale fenomeno dell’anno e cantore di una generazione, tanto da guadagnarsi ondate di odio cieco – quando altrove non sarebbe che marginale e sarebbe meglio per tutti. I Marlene Kuntz (buu!) a Sanremo, loro a recitare il copione del gruppo integerrimo finalmente maturo e noi a sghignazzare della tragica combinazione di spocchia e vecchiaia. Ma è inutile, i campioni del trasversalismo rock per l’anno 2011 sono Bugo e Le luci della centrale elettrica.

Non che sia mai stato un nostro eroe, Bugo. La sua traiettoria era stata miracolosa, per uno che tutto sommato non proponeva che una sciacquatura di Beck e del lo-fi statunitense in salsa padana – e dunque testi ebeti e dilettantismo sonoro spacciati per acre ironia. Malgrado risultasse ai più attenti come stucchevolmente datata, la sua formula era perfetta per la programmazione notturna di MTV e per i nostri universitari, che come è noto non capiscono l’inglese. La sua ultima fatica, intitolata Nuovi rimedi per la miopia, tenta la carta della grande canzone italiana: peccato che Bugo non abbia né l’ispirazione né il mestiere per riciclarsi come cantautore maturo. Il disco è un terrificante pastone canzonettistico con produzione mainstream e suoni da oratorio, chitarrine distorte, abominevoli archi ed elettronica tutta da ridere. Messa da parte l’ironia, si prova a cantare la gioia del crescere (“na-na-na-nà/ho preso coraggio/ho saltato il recinto/e sono fuggito”, in ‘E Ora Respiro’) e dell’amore (“invece di restare lì confusa/prova a guardarmi nel profondo”, vetta trash di ‘Comunque Io Voglio Te’, “un nuovo giorno/ci sta aspettando/quante cose voglio fare con te”, nell’incredibile ‘Mattino’). Con una profondità che nemmeno Fabio Volo. Insomma, levato il lo-fi rimane una pasta compositiva e un gusto da radiolina del barbiere, tra Stadio e Biagio Antonacci. Basterà citare Battisti (nelle interviste) per nobilitare tanta disgrazia compositiva?

Di Vasco Brondi, alias Le luci della centrale elettrica, non si parla mai abbastanza male. Santificato dalla stampa nonostante una totale assenza di talento musicale, il ragazzo ha proprio svoltato. Il 2011 ci aveva finora risparmiato dalle sue metafore pacchiane e dalle sue litanie. Credevamo di averla fatta franca, quando il giornale XL di Repubblica ha deciso di pubblicare un EP intitolato C’eravamo abbastanza amati. L’omonimo inedito è il solito accumularsi di versi patetici e malinconia un tanto al chilo, con “campi di grano rettangolari” e “occhi azzurri sempre più chiari”. Siccome l’ispirazione è quel che è, ecco quattro cover. ‘Summer on a Solitary Beach’ di Battiato, rallentata e appiattita sul quattroquarti, pare cantata in mezzo al ponte di una nave Tirrenia in una notte di maestrale (ogni verso un conato di vomito, un boccheggiare e un altro conato). ‘Emilia Paranoica’ dei CCCP, con un canto atonale che gli sembrerebbe tagliato addosso, è del tutto svuotata e dimostra la mancanza di carisma brondiana. ‘Dolce amore del Bahia’ di De Gregori è una nuova vetta di cattivo gusto: beat elettronico, violini zigani e schitarrate, e la voce di Vasco che arranca dietro al più elementare cambio di accordi. ‘Oceano di Gomma’ degli Afterhours, eseguita live con un Manuel Agnelli tutto adenoidi, tremoli e sospironi, esibisce una stecca da vergognarsi. Il tentativo di brondizzare le canzoni altrui, e dunque sussurri da telefono erotico e grida scomposte, pare proprio fallito. Non resta che un sacco di tamarraggine, e Vasco è ormai tanto untuoso da sembrare Mango al Burghy. In ogni caso, questo disco è più che benvenuto perché ci pare un’autopsia.

Cosa resterà di questo cazzo di 2011? Tanta buona musica così come tante porcate, da usare come monito per gli anni a venire.

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