il bureau - Bobi Raspati - Note Dolenti

Per molti i veri amici sono quelli sempre presenti nel momento del bisogno. Secondo me gli amici migliori sono invece quelli che se ne stanno a casa loro, quando serve. Mariagiulia e Bruno, brave persone, avevano comprato i biglietti per l’ATP diversi mesi fa, ma poi sono stati tanto fessi da scordarsi di prenotare un volo che li portasse in Inghilterra. Io ero già da quelle parti e così eccomi a raccontarvi quel che ho visto e sentito. Dato che non ho speso un euro il tributo è più che dovuto: grazie amici, questo articolo è tutto per voi.

All Tomorrow’s Parties è un festival itinerante organizzato da una cricca di americani ed esiste da una decina d’anni, tra Stati Uniti, Giappone ed Europa. La sede europea è Minehead, un assurdo paesello costiero a due ore da Bristol, perso nel verdissimo Somerset. Assurdo perché belloccio e dunque assediato dal turismo pensionistico, da decine e decine di fetenziali friggitorie e soprattutto dal Butlins, villaggio turistico pacchiano malamente adattato a sede del festival. Minigolf e minikart, piscina con onde e scivoli, videopoker e slot machine a perdita d’occhio, zucchero filato e pizze hut, hot dog insipidi e cinquemila hipster iphone-dotati.

Il programma consiste in tre giorni fitti di concerti, dalle due del pomeriggio alle due di notte. I palchi sono tre, e a differenza di altri festival è possibile assistere almeno a una parte di tutti i concerti – insomma, niente sovrapposizioni nel programma. Possibile solo in teoria, perché le gambe non reggono e i nervi neppure. Poi si è tutti amici, e il peggio che può capitare è di essere svegliati a calci da un buttafuori (ma con grazia, perché gli inglesi sono gente perbene). Per essere quel che è, il festival non costa manco tanto (180 pound per tre giorni e tre notti, con tanto di stanzetta confortevole). Ovvio che ogni edizione debba essere proposta come un evento irrinunciabile, e l’organizzazione si impegna perché un disegno generale tenga assieme le tre giornate e sappia attrarre tanto pubblico. La macchina del desiderio calca le pulsioni più nostalgiche e quasi sempre la si butta a celebrare la musica del passato recente. I ragazzini non hanno tanti soldi da spendere e i vecchi non hanno voglia: con un pubblico tra i 18 e i 45, all’ATP si suona soprattutto la musica degli anni ’90. L’età media non è bassa, ma certamente meno elevata di quella dei gruppi in scena.

Da quando esiste, la peculiarità dell’ATP è che ogni edizione è curata da un personaggio caro al pubblico indie – in genere musicisti, ma è toccato anche a Jim Jarmusch e Matt Groening. Bene, si dà il caso che l’edizione di quest’anno tocchi a Jeff Mangum, co-fondatore del collettivo Elephant 6 e soprattutto leader dei furono Neutral Milk Hotel. Un primo disco nel ’96, il buon On Avery Island, e due anni dopo il bellissimo In a Airplane Over the Sea, forse il più compiuto album di indie-pop del periodo. Dopo quel picco lì Jeff si è ritirato a vita privata e non ha più scritto una sola canzone, e i Neutral Milk Hotel si sono sparpagliati. Tutti richiamati per l’occasione, tutti presenti al Butlins. Sull’ATP di quest’anno aleggiava dunque la sensazione di poter assistere a una reunion, anche solo per un istante.

La giornata di venerdì me la perdo perché in visita da mio zio a Canterbury. È un brutto tiro, sia per me che per voi lettori, visto che non sapremo niente dei concerti di gente come The Fall, Thurston Moore, Jon Spencer Blues Explosion, Robyn Hitchcock, Matana Roberts e soprattutto del duo Mike Watt-George Hurley, spaventosa sezione ritmica dei giganteschi Minutemen prima che l’adorato D.Boon restasse secco in un incidente stradale (così va la vita).

Sabato sono invece della partita. Primo concerto della giornata, i Boredoms. Difficile parlare della loro musica e del loro passato: basti dire che vengono da Osaka, che sono capeggiati da un fricchettone di nome Yamatsuka Eye (collaboratore di John Zorn e voce dei primi Naked City), che nella prima parte della carriera suonavano un hardcore-punk folle e comico e che pian pianino sono arrivati a una musica sempre più spiritualista, metafisica e ariosa. Se da un po’ le loro uscite discografiche si sono fatte più rare, il centro della loro sperimentazione è oramai il concerto. Nel recente passato c’era stata la performance con 77 (il 7 luglio del 2007, sotto il ponte di Brooklyn) e quella con 88 batterie (l’otto agosto del 2008, ovviamente), e poi un pugno di performance in giro per il mondo con sette batteristi ed elettronica. Per l’occasione i ragazzi riducono l’impatto ritmico (le batterie si riducono a cinque, disposte in cerchio) e al contempo arruolano nove chitarristi e cinque bassisti. Lo spettacolo dura un’ora e mezzo ed è semplicemente spaventoso: si inizia con un nugolo di scampanellii, si passa per una trance poliritmica sostenuta da bordoni chitarristici e si approda a danze acide da morirci secchi, tra i vocalizzi demenziali dell’eccellente batterista Yoshimi e una finale, devastante, ‘Acid Police’. Eye conduce a modo suo, e a suo modo è efficacissimo: si sbraccia, salta, urla, suona un bel po’ di ottima elettronica e soprattutto sbatacchia con una serie di bastoni un totem composto da sette manici di chitarra elettrica. Insomma, lo spettacolo è sintesi e negazione del concerto rock, una roba che pare un rituale religioso e che è infatti divertentissima e liberatoria.

http://youtu.be/deTASFB-LWU

Suonare dopo una roba così è davvero un compito ingrato. Ci provano gli Apples in Stereo, gruppo indie-beatlesiano nell’orbita Elephant 6, ma mi annoiano da morire e scappo. Ci provano le goticheggianti Feathers, ma sono ridicole e scappo. Ci prova Joanna Newsom e tira fuori un concerto da impallidire. La ragazza è una compositrice sopraffina e in questa occasione si esibisce in solitaria, ha accanto a sé un pianoforte ma predilige l’amata arpa. I pezzi sono pescati dall’esordio The Milk-Eyed Mender e dall’ultimo Have One On Me, ma l’apice è raggiunto con la stratosferica ‘Sawdust & Diamonds’, dal miracoloso Ys (esagero coi superlativi, il che significa che dovreste tutti ascoltare con riguardo i suoi dischi). Aveva già suonato il venerdì, mi si dice con una scaletta del tutto diversa: il rammarico è grande, ma mi accontento. A seguire i deludenti Low (s’invecchia, eh?), l’elettronica tutto sommato trascurabile di Blanck Mass (ovvero metà dei Fuck Bottons) e uno Yann Tiersen da schiaffi (sostenuto da altri cinque musicisti piuttosto sgraziati, dalle casse non esce che un pastone finto-psichedelico del tutto indigeribile).

http://youtu.be/75QsmA4AAm8

Poi è la volta di Mount Eerie (niente male ma zero sorprese) e degli Earth (bah). Intorno alle undici di sera tocca invece agli Scratch Acid, prima creatura di David Yow e David Sims, futuri divini del noise-rock con i Jesus Lizard. Fa sorridere scrivere che il gruppo festeggi qui il venticinquesimo anniversario dello scioglimento e che il batterista abbia avuto un incidente domestico e porti il collare. Questo perché il gruppo suona benissimo e il pubblico delira. Yow è un frontman da brividi e al secondo pezzo si tuffa nel pogo (accadrà altre tre volte, e nel frattempo si sarà scolato quattro birrini e mostrato dieci volte la panza). Le cose filano così bene che arrivano addirittura un paio di bis, caso unico nel festival. A seguire due ore di elettronica e visual, tutta roba non richiesta da Jeff Magnum ma assai gradita: si passa dagli ottimi Demdike Stare (drone oscuri e beat sferraglianti) a Oneothrix Point Never, che appare assai convincente nel rileggere in chiave live le malinconie snervanti del suo ultimo Replica. Sono le tre e faccio fatica a trovare il bungalow.

http://youtu.be/mX2mU_Ue5fU

Domenica replicano i Boredoms, e io bisso (il concerto, se possibile, è forse ancora più perfetto). Rifiutati gli acustici Lost in The Trees per eccesso di melassa, una tripletta obitoriale: The Magic Band senza il defunto Captain Beefheart, la Sun Ra Arkestra senza il defunto Sun Ra, Roscoe Mitchell senza i defunti Art Ensamble of Chicago (poco importa che tutta questa gente suoni benissimo, una botta così mi tira giù). Poi ci sono gli Olivia Tremor Control, altro polo del collettivo Elephant 6 e in parte musicisti nei Neutral Milk Hotel: pop psichedelico rivolto agli anni ’60 e arrangiamenti bizzarri, roba di buona fattura ma a mio parere un poco incompiuta. Il concerto sarà pure divertente, ma sconcerta vedere dei canuti tardoni fingersi giovinastri sbarazzini. Chi invece sa il fatto suo, quantomeno in versione live, è Rafael Toral: improvvisatore portoghese e membro del collettivo MIMEO, Rafael è qui accompagnato dal batterista dei Gala Drop e si trastulla con il circuit bending. Il risultato è un free jazz elettronico di buona fattura, uno dei momenti più vivaci del festival (o, se vogliamo, meno stantii).

I nomi forti della giornata sono però altri. I Magnetic Fields saranno anch’essi vecchi ma sono semplicemente perfetti: la scrittura del baritono Stephen Merritt è impeccabile, il quintetto suadente (violoncello, piano, ukulele e un sacco di belle voci), le gag introduttive divertenti e i testi spassosissimi. Passa un’ora e te la bevi tutta, poi esci e scopri che c’è già una fila infinita per il concerto di Jeff Mangum. Si sta un’ora in piedi, qualcuno chiacchiera e quasi tutti iphonano. Infine, si entra. Alto e pallido, tutto sommato più fresco degli sfiniti colleghi, Jeff è visibilmente compiaciuto e il pubblico lo adora. Il suo spettacolo è un karaoke e lui apprezza assai tanto calore attorno alla sua voce (la stupenda ‘Holland 1945′ è un coro a perdifiato di tremila persone). I pezzi che tutti vorrebbero sono lì (più la sorpresa di una cover del caro Daniel Johnston, ‘True Love Will Find You in the End’): lui canta tutto come su disco, reclama l’affetto del pubblico e ci riempie di amore, corrisposto. Succede il prevedibile: se il set è interamente chitarra acustica e voce, ‘In The Aeroplane Over the Sea’ vede la partecipazione di Julian Koster (sega e archetto) e ‘Ghost’ quella di Scott Spillane (trombone). L’ultimo pezzo dichiarato è ‘Two-Headed Boy’, ma come su disco il brano è seguito da una fanfara orchestrale debordante (il pezzo si intitola ‘Fool’), e insomma sul palco salgono tutti gli altri e tutti si commemora quanto sarebbe bello se fossimo nel ’98 e fossimo tutti giovani e alcuni ingenui e altri vivi e di sicuro i Neutral Milk Hotel non è che se li filasse tanta gente. Insomma, tutti contenti ma io un po’ mi sento preso per il culo.

http://youtu.be/fmnYOPm5To8

Il finale del festival potrà anche essere buono, ma c’è aria di smobilitazione. I marocchini Group Doueh (anche loro veterani, suonano ‘sta roba etnica qui da quasi trent’anni) spaccano. I Sebadoh si fingono ragazzini col ciuffo, schitarrano e fanno pogare un altro po’ (meglio Jason di Lou, a mio parere). Fuori fa un freddo cane. Si barcolla fino al bungalow. Si dorme, si ringrazia chi non c’era e si torna a casa.

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