di Andrea Galante
La crisi del welfare, spesso raccontata solo in chiave economica, risiede nella difficoltà di dare una risposta utile e concreta a sfide vecchie e nuove: povertà ed esclusione, educazione e formazione di giovani e lavoratori, cambiamento climatico e risparmio energetico. Da una parte una sua concezione inefficace, burocratica e spersonalizzante, dall’altra trasformazioni sociali profonde rendono necessario un ripensamento delle forme del welfare. A questo proposito ultimamente ha preso forza la nozione di social innovation. Sino a qualche anno fa non esisteva neanche una pagina wikipedia a riguardo. Ora è invece diventata una delle parole chiave della agenda europea Horizon 2020 e anche del nostro governo tecnico che ha ha lanciato una Social Innovation Agenda per l’Italia.
La domanda viene spontanea. Cosa è esattamente la social innovation? La giustapposizione di due parole d’ordine (e spesso abusate) come social e innovation ha un potere evocativo alto, ma non altrettanta precisione concettuale. Proviamo a fare un po’ di ordine.
Il libro bianco sull’innovazione sociale degli studiosi Murray, Grice a Mulgan definisce innovazione sociale come un processo che si caratterizza sia per i suoi risultati che per le relazioni cooperative che crea. L’Unione europea, attraverso il rapporto del BEPA, sottolinea un punto fondamentale: molti problemi attuali necessitano un ripensamento degli stili di vita oltre che di novità tecnologiche e organizzative. In questo senso, la social innovation costituisce un’innovazione sociale sia nei mezzi che nei fini. Nuovi prodotti e nuovi servizi che rispondono a problematiche diffuse e che, contemporaneamente, iniettano valore nella società e aumentano le capacità stessa dei gruppi di rispondere a situazioni di crisi.
Anche se non sempre presente, la componente tecnologica è un ingrediente decisivo: la società in rete ha prodotto nuove forme organizzative e associative, ha dato supporto a una necessità di cooperazione e di condivisione tra gli individui e ha creato un terreno che sfugge alle classiche divisioni tra pubblico e privato. Così, l’innovazione spesso risiede nella capacità degli individui di legarsi in reti e gestire problemi complessi e, assieme di dar spazio a forme di intelligenza collettiva.
Ma di cosa si sta parlando in concreto? Le forme della social innovation possono essere varie: imprenditoria sociale, associazionismo, profit e no-profit, settore pubblico e privato. Per esempio, Amsterdam UrbanMap è uno spazio web che informa sulle emissioni CO2 della città e fornisce ai sui abitanti consigli riguardo i metodi migliori di riduzione. The participatory budgeting è una piattaforma attraverso la quale i cittadini di Colonia sono invitati a partecipare circa le decisioni di allocazione di risorse pubbliche. E ancora, i Complaints Choirs danno la possibilità a tante persone in tutto il mondo di riunirsi e – letteralmente – cantare i problemi della loro vita quotidiana.
Le forme attraverso le quali si può innovare il sociale sono varie e curiose, anche se non è detto che siano tutte efficaci. Ciò che ci preme sottolineare è che è il legame sociale, la relazione tra soggetti diversi a occupare la centralità della scena. Come afferma Alex Giordano, sociologo attento a questi fenomeni, “l’etica del networking sta uscendo dalla rete e incominciando a colonizzare nuove forme di organizzazione del lavoro. Ciò è interessante perché risponde a regole non più aritmetiche: non siamo più in una dimensione dove uno più uno fa due, ma in una dimensione dove uno più uno può fare tre, prendendo pezzi disagiati di società e mettendoli insieme si possono creare delle opportunità”.
Ecco allora la resilienza del nuovo welfare. L’approccio della social innovation parte dalla crisi dei servizi sociali e del rapporto tra istituzioni e bisogni della società, usa l’intelligenza collettiva e crea opportunità, aumenta la partecipazione dei cittadini. Non risolverà tutti i problemi e da solo non basterà, quello è certo. Ma è il suo carattere che ci piace.