di Matteo Pelliti
Lapis # 23 (La Babele silenziosa di Guido Scarabottolo)
Numero speciale di Lapis, in trasferta nello studio milanese di Guido Scarabottolo, illustratore tra i più apprezzati e originali del panorama internazionale. Dopo la laurea in architettura presso il Politecnico di Milano, Guido ha lavorato come illustratore e grafico. Tra le collaborazioni più durature quella con L’Europeo e quella con Italo Lupi, per Abitare. I suoi disegni appaiono regolarmente su Internazionale e sul Domenicale de Il Sole 24 Ore e, irregolarmente, su New Yorker e New York Times. Dal 2002 illustra le copertine per le edizioni Guanda di cui cura integralmente la veste grafica.
Arrivo a Milano in una mattina di maggio molto calda, e sui navigli si sta bene a prendere il sole. Guido Scarabottolo mi aspetta nel suo studio; mi ha dato indicazioni dettagliate per raggiungerlo, per me timoroso provinciale che tende a perdersi molto facilmente nelle metropoli. Ci sediamo al suo tavolo, su due sedie coi braccioli, rosse, simmetiche che, mi racconta, sono state recuperate dall’abbandono certo. Il tavolo è di un legno grezzo, e molto poroso. Sistemo il telefono per registrare l’intervista che poi è, per me, una specie di pretesto per incontrarlo e dialogare. Io le interviste non so farle, non so come registrare, non so chiedere le cose giuste che si trovano dentro le interviste, e sono un intervistatore timido. Appoggio sul tavolo un paio di cataloghi dei suoi lavori (“Elogio della pigrizia” e “Sotto le copertine”, editi da Tapirulan), e una cartella con le stampe del suo Pinocchio. Proviamo il volume della voce, Guido si preoccupa che il rumore di fondo dello studio al lavoro possa coprire la nostra intervista, perché lui parla a bassa voce, sia in senso letterale sia in un senso figurato, per quel naturale understatement che hanno, a volte, i grandi pensatori. Cominciamo.
Mi interessa partire dall’idea del formato, nei tuoi disegni, nel tuo lavoro in generale. In un’intervista dicevi di come le copertine, oggi, spesso su internet siano visualizzate come francobolli. Tu, facendo centinaia di copertine sai già che quel disegno andrà in quel formato. Però ci sono certi tuoi disegni, penso ad una tavola del Pinocchio, alla balena (vedi qui), ecco vedo quella tua tavola e la vedo a dimensione reale, a dimensione 1 a 1, in qualsiasi dimensione sia riprodotta per me rimane enorme, come a dimensione reale. Qual è il tuo rapporto con il concetto di “formato”.
A me è capitato di fare dal francobollo al murale, nel corso del tempo, e non ho cambiato assolutamente niente della dimensione in cui disegno in realtà. Ad esempio, ho fatto dei disegni per le biblioteche della Valtellina che vanno a decorare delle pareti, quindi le figure sono un metro e ottanta, a dimensione reale. Il disegno è sempre fatto allo stesso modo, cioè uso lo stesso tratto 0.5 di grafite, o un pennarello sempre 0.5, e disegno con quello su un foglio A4, normalmente; forse ultimamente ho usato fogli A3 per avere un tratto un po’ più sottile però, diciamo, il disegno regge questi spostamenti di dimensione; questo in parte è forse dovuto alla tecnica che utilizzo, però non vorrei scendere nei particolari sulla definizioni delle immagini per chi lavora in digitale. Diciamo che io ho un originale che mi permette di uscire a una buona definizione anche su grandissime dimensioni senza risentire della pixelatura, cioè uso dei programmi di disegno vettoriali, di disegno tecnico piuttosto che quelli di disegno raster perché, appunto, quelli vettoriali consentono uscite a dimensioni enormi senza perdere di definizione. Ma il problema non è quello tecnico, il problema è quello della costruzione visiva dell’immagine. Ho l’impressione che qualsiasi tipo di immagine sopporti questo…siamo abituati a vedere quadri giganteschi oppure affreschi immensi riprodotti sui giornali o sui libri, quindi anche la Cappella Sistina la vediamo piccola (sorridendo) e siamo liberi di immaginarci qualsiasi dimensione.
Guardando tutta la tua produzione, saresti disposto ad auto-catalogarti in “periodi”, così come avviene a volte con i pittori? Qualcuno dall’esterno l’ha fatto? O tu, su di te, riconosci un periodo della tua biografia creativa che ha avuto delle ricorrenze, sia di tipo grafico, sia di tipo cromatico, al di là di quello che è il tuo stile? Saresti disposto a dire “ho avuto un mio periodo…”
Blu…(sorride)
…sì, blu, appunto, o delle “sedie inclinate”, o “dei tavoli” prevalenti, o “del fuoco” più presente?
Si, ci sono senz’altro due periodi fondamentali, direi, e la separazione trai due periodi ha coinciso con la prima crisi dell’illustrazione in Italia che ha costretto molti dei miei colleghi a cambiare mestiere e anche me a tornare sui miei passi; perché pensavo di essere riuscito a raggiungere un livello in cui potevo mantenermi con l’illustrazione e ho dovuto ricredermi rapidamente, perché l’illustrazione, alla fine degli anni Ottanta, è sparita da tutti i giornali italiani in un anno: è stata una specie di estinzione dei dinosauri (ridendo). Così ho iniziato a ragionare un po’ di più sulle questioni stilistiche, mentre prima facevo delle cose un po’ barbare, così, senza molta preoccupazione, diciamo un disegno più orientato alla vignetta che non all’illustrazione; e mi sono accorto che stavo utilizzando un linguaggio molto limitato e avevo attribuito invece che a ragioni economiche, che erano quelle prevalenti, anche a questa cosa qui il fatto di aver perso tutte le collaborazioni con i giornali contemporaneamente. Ho lavorato un pochino come grafico, ho iniziato a riciclarmi come grafico e nel frattempo ho ragionato sullo stile per cercare di arrivare a un linguaggio più complesso che potesse coprire una quantità di rapporti con la scrittura un po’ più ampia rispetto a quelli della satira di costume.
E questa è una ricerca che, siccome è molto divertente, continuo a portare avanti. Quindi può darsi che i miei periodi siano segnati da alcune scoperte che mi hanno permesso di allargare la mia cifra stilistica senza troppo perdere di riconoscibilità. D’altronde lo stile…almeno, quando ho dei problemi, diciamo, filosofici rispetto alla riflessione, io mi vado a leggere cosa dicono gli scrittori che, in generale, sono quelli che ragionano un po’ di più (sorridendo) sulle questioni di cosa sia lo stile o meno, e ci sono delle cose illuminanti, no? Per dire, Cocteau diceva che lo stile è “cercare di non averne uno senza riuscirci”, che già questa è una cosa che ti apre una serie di orizzonti incredibili. E comunque, riuscire a capire che lo stile non è un certo tipo di segno tanto meno un segno forzato, ma è un modo di avvicinare un tema e di sviscerarlo usando delle tecniche, ma usando anche delle tecniche di pensiero, dei modi di pensare, dei modi di esprimersi al di fuori delle righe e dei colori.
Mi viene in mente che spesso hai detto che ti senti molto più libero nei confronti degli scrittori, quando devi creare una copertina per i loro libri, con i quali non hai un rapporto, diciamo..affettivo..o di...
…di sudditanza intellettuale (sorridendo). Mi sembra ovvio. Uno è sempre intimidito dalle persone che gli piacciono…
…e quindi anche i rapporti di traduzione possibile dal testo alla copertina diventano più…
…sì, se diventi “rispettoso” rischi di usare dei linguaggi che non sono i tuoi, e tutto diventa più difficile.
Volevo parlarti di automobiline. Utilizzarle per chiederti qual è il tuo rapporto con l’urbanità, con le tue città che sono, quando ci sono, delle Babele silenziose. La torre di Babele ogni tanto ricompare come tuo totem muto. E però ci sono queste automobiline tondeggianti che sono automobili da un lato fumettistiche, dall’altro fantascientifiche, futuriste quasi, e che sono un segno di progresso dentro città silenziose dove sembra che queste macchine non inquinino, senza rumore. Cosa sono queste automobiline per te e come è la tua città, da urbanista che ha “salvato” l’urbanistica da un urbanista in più?
Eh…domanda complicatissima questa…Diciamo che del mio modo di disegnare, a un certo punto, ne parlavo come se fosse una specie di scrittura, e quindi avevo degli ideogrammi di cui l’automobile è uno degli ideogrammi che uso, e quindi aveva le caratteristiche più della scrittura che non del disegno, una sintesi il più economica possibile di un’immagine. La città è un tema che ogni tanto affronto, però l’affronto con molta prudenza perché è complicata da disegnare e quindi lo faccio solo se sono costretto. Le automobili sono la nostra condanna, il nostro peccato capitale in questo momento, dal mio punto di vista. Quindi devono essere presenti nei disegni; poi, che le mie non siano aggressive è una specie di esorcismo rispetto alle tendenze del design delle automobili degli ultimi tempi. La cosa buffa è che, dovendo disegnare come scrivere, la cosa sta diventando estremamente più difficile col passare del tempo, perché tutti gli oggetti che avevano una caratteristica precisa dal punto di vista visivo – come il telefono degli anni Cinquanta, la televisione degli anni Sessanta – qualsiasi cosa, adesso, perde la propria autonomia formale perché non dipende più dalla sua costruzione meccanica: tutta la meccanica è diventata virtuale, quindi tutto tende a diventare un rettangolo con gli angoli smussati (sorridendo). Quindi scrivere solo attraverso rettangoli non so quanto possa essere comprensibile, è diventato abbastanza difficile. Perdiamo continuamente icone disponibili. Ma, non so, è una sfida anche: cioè, quando disegni un televisore adesso non sai più se è un televisore, un computer, un quadro, uno specchio, un telefono grande, un rasoio da barba…
C’è un tuo disegno, un frammento di un disegno (vedi qui) che hai fatto quando avevi sei anni, e questo disegno è già…
E’ uguale! (ridendo)
No, non è uguale, ma contiene già, dal mio punto di vista, un grande spirito architettonico di grande essenzialità e pulizia rispetto a quello che disegnano i bambini di sei anni. Come ti specchi in quel tratto, come ti vedi in quel tratto, in quella figura geometrica?
Uno dei miei tentativi, siccome ammiro moltissimo la libertà che hanno i bambini quando affrontano il foglio banco, è quello di tornare a quel livello lì. E devo dire che il computer mi ha dato molto una mano da questo puto di vista perché, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il computer, o meglio l’acquisizione digitale di disegni fatti a mano, ti consente di trascurare gli errori possibili o che capitano anche effettivamente, perché a quelli puoi rimediare conservando la parte che è venuta bene. Mentre prima, quando dovevi fare la bella copia del disegno, diventava tutto più rigido. Più che riconoscermi vorrei tornare a questa libertà che avevo. Poi c’è questo discorso che tutti mi dicono che faccio dei disegni infantili, che vanno bene per i bambini, oppure che anche il loro figlio lo potrebbe fare, quando faccio il preventivo tirano fuori questi discorsi, sono capitate cose di questo tipo. In realtà io ho quest’odio per il disegno realistico, odio…odio è anche tanto, più indifferenza che odio. E mi piace sempre che quando tu fai un disegno dichiari anche che è un disegno, anche visivamente. Anche perché io penso che il disegno è preziosissimo come strumento di conoscenza. Quando tu studi qualche cosa, se la disegni la capisci meglio. Il disegno, anche proprio lo schizzo sommario, ha un contenuto di rapporto con la realtà che è molto maggiore della fotografia perché la fotografia, nascondendosi dietro una pretesa di realismo, in realtà ha un destino che la porta verso il magico, dal mio punto di vista. Infatti, dalle foto ufficiali sovietiche sparivano le persone. Gli effetti speciali funzionano se sono fotografici, non funzionano se sono disegnati in modo sommario. E gli effetti speciali sono tutti illusionistici, sono tentativi di inganno. E’ buffa questa cosa.
Dicevi di un committente che ti rimproverava un tratto infantile. In realtà, l’astrazione dei tuoi disegni, mi pare, quanto di più lontano ci sia da un tratto “infantile”. Sopratutto quando le figure riguardano le relazioni interpersonali. Penso a certe tue tavole di donne e uomini, uomini e bambini che sono, dal mio punto di vista di lettore della tavola, perturbanti, perché arrivano all’essenzialità della relazione, o alla “crudeltà” certe volte della relazione, e quindi quelle tavole, in cui viene messo in scena il grado zero di una situazione emotiva, sono a volte realmente molto “crudeli”
Beh, cercano di essere realistiche, non attraverso il segno ma attraverso il contenuto. Forse il segno, in qualche modo, tempera questa crudeltà della situazione, che non è crudeltà mia, è…
…è di come a volte le situazioni possono essere, molto radicali, ma questa radicalità si ritrova nelle tue tavole
…sì, però sempre temperata da un segno affettuoso, dal mio punto di vista. Più legato alla compassione, in senso etimologico, che non alla critica
…però lo sguardo è radicale, la capacità di penetrazione negli elementi essenziali
E se no che gusto c’è! (ridendo)
Volevo parlare della tua firma, chiederti che rapporto hai con la grafia, con la calligrafia, che sempre meno pratichiamo. Ci sono studi che raccontano un distacco dalle capacità della scrittura a mano libera. La tua firma, quando appare, è questo stampatello tondeggiante allungato del tuo cognome. Il tuo rapporto con la tua grafia, in un font uno può specchiare la propria personalità così come i grafologi lo dicono possibile con la grafia?
Immagino di sì. Una volta, al liceo, ho preso un brutto voto in un tema perché, a parte che era un tema molto ingenuo di critica immotivata al lavoro di Foscolo, ho preso un brutto voto anche perché l’avevo fatto con una grafia, una scrittura trasandata a vagamente illeggibile – mi hai tirato fuori questo ricordo… – tra l’altro da parte di una professoressa che ho ammirato moltissimo e a cui sono profondamente grato. Io mi dimentico di firmare i disegni molto volentieri, poi ho una firma standard che ho scritto una volta e se me lo chiedono ci piazzo quella ma, normalmente preferisco che siano accreditati tipograficamente all’esterno i disegni. Mi da un po’ fastidio la presenza di una firma. Con la scrittura non ho un buon rapporto perché non la pratico, non la pratico molto; l’ho sempre trovato un po’ faticoso scrivere. Adesso mi sono accorto, recentemente, quando ho dovuto scrivere queste didascalie per questi cataloghi che hai, mi sono accorto che la lentezza della scrittura manuale aiuta il pensiero, e quindi sto un po’ recuperando questa cosa qui; d’altra parte sto anche ragionando sulle sorti della scrittura.
A partire dalla necessità di riflettere sulle copertine, data la loro seconda vita digitale on line, dove appaiono come francobolli, e quindi questa cosa qui dovrebbe influenzare il progetto delle copertine in futuro; o sdoppiarlo, o comunque indurre dei ragionamenti su come vanno fatte le copertine, a partire da questa cosa qui…e passando per il pensiero che, va bene il francobollo nella pagina dove sono tutti i francobolli va benissimo, ma nel processo di informazione o di acquisto rispetto a un libro in vendita on line tu scegli il francobollo? Non so bene come, perché non è che hai lì tutti i francobolli, devi prima avere dei filtri di qualche tipo che ti conducono a una rosa ristretta di francobollo, dopo sui quei francobolli lì tu puoi cliccare per approfondire l’informazione. A quel punto lì è inutile che ti appaia una copertina ingrandita, ti può apparire benissimo qualsiasi altra cosa perché il supporto lo consente. Può apparirti un film, infatti fanno dei booktrailer, già adesso. Oppure può apparirti una copertina casuale scelta tra mille copertine; oppure non casuale ma una copertina scelta tra mille copertine dello stesso libro costruita sulle informazioni che il sito di vendita ha su dite, per esempio. Oppure può apparirti una scatola di montaggio per copertine dove tu ti fai la copertina che vuoi, cose così…
Questo mi ha portato ha ragionare sul supporto carta e supporto digitale e a pensare che il supporto carta ha chiuso il suo periodo storico. Partito da Gutenberg, e anche prima, va beh prima c’erano le pecore, diciamo da Gutenberg e la stampa, la stampa è arrivata fino a qua, adesso la stampa comincia a mostrare segni di debolezza estremi rispetto alle possibilità di questo nuovo standard di trasmissione della cultura, dell’informazione, dell’intrattenimento. Se tu prosegui su questo filo di ragionamento arrivi a immaginare che, addirittura, la scrittura possa diventare superflua. Perché con un supporto digitale le parole scritte richiedono un tipo di attenzione che non è concorrenziale con il tipo di attenzione richiesto da un film che ti racconta la stessa cosa; un film o un documentario o qualsiasi cosa. Pensa Shakespeare, Shakespeare scriveva commedie che recitava, non so, o faceva recitare, non ho idea, non so nemmeno se esisteva davvero Shakespeare. Allora è più giusto leggerle, avere un libro o, con lo stesso peso, avere lì 400 amleti interpretati da 400 registi con 400 compagnie teatrali che vanno da, che so, da Peter Brook a Kaurismäki? Cosa è la cosa più giusta? E poi ci sono i sistemi di trascrizione da voce automatici, ma la trascrizione da voce serve solo in una fase in cui il libro ha ancora un senso, ma dopo ascolti direttamente la voce, casomai saranno più importanti i software di traduzione istantanea che non di trascrizione. Questa cosa qui, paradossalmente, mi è confermata dal fatto che c’è un boom di attenzione nei confronti della calligrafia: cioè, tutti i ragazzi che si occupano di grafica adesso sono lì che fanno esercizi di calligrafia a più non posso, ci sono workshop di calligrafia, tutorial on line di calligrafia, che solitamente questa cosa qui indica la reazione – anche la pittura materica, il disegno materico – sono tutte reazioni all’evoluzione digitale di quella cosa lì. Quindi se con il computer puoi fare dei disegni puliti perfetti et cetera…allora no: allora facciamo a mano dei disegni sporchi, rovinati, con degli errori, e tutti introducono errori appositamente costruiti nei disegni, anche nei disegni digitali, per simulare un’esistenza della materia che non c’è più. Perché è una specie di nostalgia…
…di paura della smaterializzazione…
…o di paura della smaterializzazione. E’ molto interessante questa cosa. Sarebbe il caso di parlane un pochino di più. Mentre mi sembra che, rispetto a questi ragionamenti che possono portare a delle riflessioni sul destino del libro, che danno delle indicazioni su cosa fare e come muoversi, invece ci siano delle reazioni di tipo feticistico, per cui rispondono: “Ma no, il libro non morirà mai, perché la carta, il tatto, l’odore dell’inchiostro…”, queste robe qui che sono, secondo me, degli esorcismi più che dei ragionamenti. Mi sono comprato il libro di Eco su questa questione ma non l’ho ancora letto, quindi non so bene se…vediamo…ma in base all’esperienza di tutto il tempo che ho passato ad affrontare questi temi qui, mi sembra che non mi sbaglio di tanto.
So che uno dei tuoi desideri sarebbe, o sarebbe stato, di costruirti una casa di legno!
Sì, sarebbe stato (ridendo)
E’ ancora così?
No, non posso più costruire case, sono troppo vecchio. Non riuscirei nemmeno a finirla coi miei ritmi di lavoro (ridendo). Da piccolo mi costruivo le capannine al mare, con le canne, con quello che trovavo. Mio zio era falegname, mi sono sempre costruito giocattoli da solo, e anche capanne di carta e bacchette di legno. Quindi ho una familiarità con il lavoro di falegnameria e carpenteria. Mio padre mi aveva insegnato a fare gli impianti elettrici, avevamo fatto l’impianto di casa quando avevo 6-7 anni. Mi ero costruito un telegrafo coi fili che andava con segnali luminosi. Un poco di queste tecnologie artigianali le maneggio ed è un po’ come fare il giardinaggio: sono cose che ti danno molte gratificazioni perché fai una cosa e la vedi mentre la fai. Ed ha quel senso lì, in sé. Non è come un disegno che va in libro o in giornale dove ce ne sono centinaia di altri e del cui processo di produzione non controlli tutto. Non si può far tutto.
Rispetto alle cose che mi hai raccontato sul tuo rapporto con la firma, credo che non riuscirò, in conclusione, a farmi autografare tutti questi libri tuoi, vero?
No…però….magari, dai, questo…
Guido prende la cartelletta della mostra sul suo Pinocchio realizzata a Pisa al Museo della Grafica qualche anno fa che ho portato con me. Con la penna 0.5 inizia a completare il corpo del burattino. In mano gli fa tenere un libretto con su scritto POESIA e dal fumetto un saluto per me. Poi mi regala molti suoi libri recenti, tra i quali il bellissimo Manifesto Segreto. Gli chiedo se posso scattare qualche foto allo studio. Da una mensola tira giù una scatola magica, e dentro c’è il suo alfabeto fatto di uomini, automobili, mani, case: disegni incisi su legno di bosso da Adriano Porazzi (vedi video), un artigiano-artista che purtroppo non c’è più.
Riempio lo zaino dei doni prima di ripartire, e poi c’è il tempo per salutarsi. Guido deve rimettersi al lavoro, scadenze, committenti, progetti, telefonate in sospeso. “Ci sarebbe da ritelefonare a XY per quel lavoro?” “Ma devo farlo proprio oggi? Non possiamo richiamarlo un’altra volta?”