di Matteo Pelliti
Lapis #27 (in memoria di Pedro Aguayo Ramirez)
Vorrei scrivere qualcosa su Rey Mysterio che colpisce a morte Pedro Aguayo Ramirez, perché non ho ancora letto, al di là della semplice cronaca della tragedia riportata in molti siti (ad esempio qui) e mostrata in video, alcuna riflessione di tipo “massmediologico” sull’accaduto: la “frattura” di un immaginario potente in cui realtà e finzione convivono in modo costitutivo.
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, cioè quando io e i miei coetanei frequentavamo ancora le scuole elementari, in quelle scuole i gabinetti dei maschi (mi pare fossero divisi, a quel tempo, da quelli delle femmine…) erano diventati tutti dei potenziali ring di wrestling. La “lotta libera americana”, come forse impropriamente l’italianizzavamo al tempo, ci arrivava per due canali contemporanei, come in stereofonia, da Occidente e da Oriente. I cartoni animati dell’Uomo Tigre, prima serie, in Italia dal 1982, dall’estremo Est; gli incontri di “catch” di Hulk Hogan, André The Giant, Antonio Inoki e di “Macho Man” (Randy Savage) da Occidente, trasmessi nelle libere tv berlusconiane. Ricordo che il termine “wrestling” non si era ancora diffuso nel linguaggio comune, come accadrà a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, e parlavamo, nei bagni della Scuola Elementare Eugenio Chiesa di Avenza (Massa-Carrara) di “Catch”, rischiando rotule, gomiti, zigomi e scatole craniche in incontri clandestini, durante l’ora di ricreazione. I nomi dei campioni sopra citati erano, per noi, quelli di divinità mitologiche, dei di un olimpo fatto di calci volanti e prese al collo.
Chi è nato negli anni Ottanta (come mio fratello, o come altri ragazzi trentenni che conosco…) ha, credo, un altro tipo di imprinting: i pupazzetti giocattolo dei wrestler più famosi in vendita e, soprattutto, lo strutturarsi di complesse storyline, vale a dire “l’insieme dei fatti più importanti della storia ideata dai booker (sceneggiatori) di una federazione di wrestling”. Il wrestling è integralmente interpretabile con le categorie narratologiche, basta scorrere brevemente il suo straordinario lessico (vedi) per constatarlo. La morte, la morte “vera” non può essere prevista dentro una storyline. Ci può essere una “caduta di sipario”, un’uscita dai personaggi del buono e del cattivo rappresentati “in scena”, un disvelamento classico. Ma la morte? La morte vera? Il wrestler si rompe, si acciacca, invecchia, complotta, tradisce, si pente, sta continuamente sul limite della morte (fondamentale il film The Wreslter, Leone d’oro a Venezia nel 2008, con un magistrale Mickey Rourke) ma non muore. Verità e finzione del wrestler sono concetti sfumati, permeabili. Anche per questo, forse, gli anni Novanta saranno lo scenario ideale ed epoca centrale della WrestleMania (chi non ricorda il carisma di The Undertaker?)
Per questi motivi, credo, l’incidente sul lavoro di Pedro Aguayo Ramirez intacca profondamente un immaginario: il suo collo che si frattura sbattendo sulle corde, dopo un calcio volante di Rey Mysterio/Oscar Gutierrez (personaggio/maschera positivo, orgoglio del Messico, pluricampione del Mondo leggendario etc. etc.) fa entrare nel ring quell’elemento – la Morte – che proprio nella rappresentazione epico-favolistica della violenza il wrestling escludeva. Non così la boxe, l’automobilismo, il ciclismo, tutti sport che contano un ampio campionario di martiri morti sul campo, in azione. E che, anzi, fanno proprio del rischio, del rischiare letteralmente la vita, uno degli elementi di attrattiva. Non il wrestling, che è principalmente “racconto”, in quell’opacità ibrida di vera finzione, di finta verità di calci, prese, ossa rotte e mosse esiziali che anche noi bambini cercavamo di imitare, nei bagni della scuola elementare Eugenio Chiesa, tra il 1978 e il 1983.