FENICI D'ITALIA
COME ALCUNE IMPRESE ITALIANE SONO RIUSCITE A REINVENTARSI E SOPRAVVIVERE ALLA CRISI

di Leonardo Bianchi

 

Il 2012 è stato l’Anno Internazionale delle Cooperative, un riconoscimento voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per «mettere in risalto il contributo che le cooperative danno allo sviluppo socio-economico, in particolare riconoscendo il loro impatto sulla riduzione della povertà, l’occupazione e l’integrazione sociale».

 

L’Organizzazione Internazionale delle cooperative industriali, artigianali e produttrici di servizi (CICOPA) ha studiato come le cooperative abbiano reagito alla crisi, pubblicando i risultati in un dettagliato rapporto del 2011. «Il tasso di occupazione e di sopravvivenza dell’impresa cooperativa – si legge nel documento – è più alto rispetto alle imprese normali». Le cooperative, inoltre, «tendono a produrre un tipo e un livello d’innovazione organizzativa che contribuisce in maniera significante alla sostenibilità economica dell’impresa» e, durante i periodi di incertezza economica, «preferiscono conservare i posti di lavoro attraverso la flessibilità».

 

Queste caratteristiche si sono rivelate assolutamente decisive per la sopravvivenza di molte aziende – anche in Italia. Grazie al workers buy out (WBO, ossia quando i dipendenti rilevano l’azienda e ne diventano proprietari), alcune imprese sono riuscite a non farsi travolgere dal tracollo del Paese e a rimanere sul mercato proprio attraverso il passaggio a una società cooperativa. Secondo un monitoraggio di Coopfond (il Fondo Mutalistico di Legacoop), dal 2008 a oggi i casi di WBO sono stati 29 in svariati settori, tra cui anche l’informatica e la farmaceutica. Le regioni coinvolte ricalcano la mappa del radicamento cooperativo: Emilia-Romagna e Toscana in testa; Veneto, Lombardia, Umbria, Marche e Lazio a seguire. Per queste operazioni Coopfond ha erogato complessivamente circa 30 milioni di euro. I posti di lavoro «resuscitati» sono più di 600.

 

Uno dei casi più riusciti è sicuramento quello della Modelleria D&C di Vigodarzere (Padova), una cooperativa industriale sorta dalle ceneri dell’ex Modelleria Quadrifoglio. Per questa impresa i problemi erano iniziati verso la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Stando a un articolo di Devis Rizzo (responsabile del settore Produzione Lavoro di Legacoop Veneto) pubblicato nel 2010 sulla rivista Economia e società regionale di Ires Veneto, la crisi dell’azienda non era tanto da imputare alla mancanza di commesse, quanto piuttosto «ad una cattiva gestione da parte della proprietà [una società egiziana subentrata da poco a precedenti gestioni, nda], assolutamente impreparata e incapace di misurarsi con la gestione dell’azienda, probabilmente anche disinteressata al processo industriale».

 

D’accordo con il sindacato Fillea-Cgil, i lavoratori avevano deciso di accodarsi all’istanza di fallimento presentata da un fornitore della Modelleria Quadrifoglio. Il 20 maggio del 2010 il Tribunale di Padova aveva dichiarato il fallimento dell’azienda. «All’inizio non sapevamo cosa fare – racconta Simone Broetto, attuale vicepresidente della Modelleria D&C – Eravamo però ben consapevoli che la nostra situazione era stata causata dalla mala gestione. Così abbiamo iniziato a sondare varie possibilità».

 

L’idea di riavviare l’attività in forma di cooperativa autogestita inizia a farsi strada negli incontri costanti tra lavoratori, sindacato e Legacoop Veneto, e si realizza l’8 giugno del 2010 con la costituzione della cooperativa. «In tutta onestà, noi conoscevamo anche poco le cooperative», spiega Alberto Grolla, membro del cda di Modelleria D&C. «Ci sembrava però che la cooperativa fosse il sistema migliore per inquadrare la nostra realtà. Noi nascevamo come dipendenti e stavamo diventando soci di un’azienda, per cui pensavamo che questo fosse il percorso più naturale».

 

Per quanto riguarda l’assetto societario, i soci sono 12 (15 i dipendenti complessivi). Il capitale iniziale è costituito dall’anticipo della mobilità volontaria chiesto dai lavoratori (circa 300mila euro), dall’importo analogo versato da Coopfond e Cooperazione Finanza Impresa (Cfi) e infine dall’apporto (in qualità di soci sovventori) di altre quattro cooperative industriali di Legacoop Veneto. I dipendenti della D&C si riuniscono almeno una volta al mese per proporre idee, miglioramenti o modifiche e discutere l’andamento dell’azienda. Finora i risultati sono stati incoraggianti: l’anno scorso il fatturato ha superato il milione di euro, con un utile di circa 13mila euro.

 

Un altro caso interessante verificatosi nel padovano è quello delle Fonderie Zen, una fabbrica storica fondata nel 1925 dalla famiglia Zen. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’impresa avvia un processo di industrializzazione e si trasforma in una fonderia che produce ghisa sferoidale di componenti per macchine agricole, movimento terra e trasporti. Nel 2008 il gruppo Zen – nel frattempo rilevato dall’imprenditore Florindo Garro – arriva a disporre di sette siti produttivi tra Italia e Francia, può contare su 1.900 dipendenti e ha un fatturato di circa 500 milioni di euro. Poi le cose cominciano a precipitare rapidamente, e alcune scelte manageriali del gruppo aggravano la situazione.

 

In Italia, le circa 200 tute blu delle Fonderie Zen finiscono in cassa integrazione a rotazione e, da fine settembre a metà novembre del 2009, organizzano un presidio permanente davanti ai cancelli dell’impianto. Nello stesso anno il Tribunale di Padova concede l’amministrazione straordinaria. Quest’ultima produce sin da subito i suoi primi frutti, anche grazie alla volontà del commissario Giannicola Cusumano di riavviare l’attività. Gli operai, capita la gravità della situazione, si autoriducono lo stipendio e alla fine del 2010 le Fonderie ottengono un risultato positivo di bilancio.

 

Nel 2011 alcuni gruppi internazionali si mostrano interessati al rilevamento dell’azienda. Le trattative, però, si arenano e i potenziali acquirenti si defilano: c’è un calo nella produzione e, soprattutto, il «rischio Paese» è troppo elevato. Con l’amministrazione straordinaria agli sgoccioli e nessun compratore in vista, la prospettiva di portare i libri in tribunali torna drammaticamente a farsi concreta. È a quel punto che tra operai e management matura l’idea di riprendersi la fabbrica dall’interno.

 

Nel dicembre del 2011 vengono costituite la srl GDZ, formata da manager e dipendenti di alto livello, e la Cooperativa Lavoratori Fonditori (CLF), guidata dall’operaio e sindacalista Fiom Marco Distefano. Il capitale sociale della CLF proviene interamente da una quota del Tfr (2000 euro) a cui 120 dipendenti hanno rinunciato. Michele Prà – che ha cominciato a lavorare come operaio per le Fonderie nel 1978 ed è l’amministratore delegato della nuova società ha così descritto la dinamica di questo «esperimento societario» che per certi versi si avvicina alla cogestione tedesca: «Negli ultimi due anni, pur sotto l’ombrello dell’amministrazione straordinaria, di fatto l’azienda l’abbiamo portata avanti noi. Quindi abbiamo deciso di provarci, ecco». Per Sandro Schiavo, operaio della Zen, quella della cooperativa è «l’unica prospettiva»: «Vorremmo entrare nella gestione dell’azienda e avere un peso anche a livello decisionale, negli investimenti e nella governance».

 

L’assetto societario delle nuove Fonderie Zen è costituto dal 70% dal capitale di Overseas, il 25% dai manager aziendali e il 5% dalla cooperativa degli operai. Il piano iniziale prevede di aumentare la produzione del 75% e di passare da 115 dipendenti a 150 in tre anni. Il rilancio, come ha spiegato Prà al Mattino di Padova, non è però automatico: «La cosa che ci frena di più in questo momento paradossalmente è la spesa per l’energia elettrica, cresciuta del 40% in 2 anni e che dall’8% delle spese è salita al 14. Ci sono aziende che chiudono perché non possono pagare le bollette elettriche». In più, «le commesse sono scarse e il lavoro stenta a ripartire velocemente, tanto che all’inizio dell’anno si è resa necessaria una decina di giorni di cassa integrazione».

 

Altre esperienze possiedono una carica più politica, simbolica e militante. Nel 2009 la Maflow, impresa di Trezzano sul Naviglio (Milano) attiva nel settore della componentistica automotive, viene dichiarata in stato d’insolvenza dal Tribunale di Milano. L’anno successivo il gruppo polacco Boryszew acquista l’azienda, ma non ha nessuna intenzione di rilanciare la Maflow o fare investimenti. Scaduti i due anni di amministrazione straordinaria, la fabbrica viene chiusa e i 330 dipendenti licenziati in tronco. Quest’ultimi, però, non si danno per vinti.

 

Come ha raccontato il sito L’Isola dei cassintegrati, già prima che il gruppo polacco abbandonasse la Maflow al suo destino, tra i lavoratori in cassintegrazione si insinua «l’idea di costituire una Cooperativa, una Società di Mutuo Soccorso. Con il sogno di un nuovo futuro, per tutti». Nell’estate del 2012 viene individuato il settore in cui la Cooperativa debba lavorare: quello del riciclo dei rifiuti, soprattutto tecnologici. Nel febbraio del 2013, a seguito dell’occupazione della fabbrica, nasce la cooperativa autogestita Ri-Maflow. L’obiettivo, come si legge sul sito, va ben oltre il riciclo dei rifiuti: «Inutile negarlo, vogliamo essere anche una RI-voluzione, ma non di quelle violente, che inevitabilmente offrono un pretesto per essere arrestate, piuttosto di quelle che nascono piano nell’intimo di ognuno, prendono forza, crescono e non si fermano più…»

 

Lo scorso giugno a Roma sono nate le Officine Zero all’interno dell’ex Rsi (Rail Service Italia) di Casal Bertone, una fabbrica di manutenzione dei treni notte a lungo occupata dai 33 operai in cassa integrazione. La storia della Rsi inizia nel 2000, quando la Wagon Lits cede al fondo d’investimento Colony Capital manutenzione, riparazione e trasformazione dei treni. Nel 2008 Rsi viene acquistata dalla Barletta srl con un piano ben preciso: «immobili al posto della produzione». Il 3 maggio 2013 la magistratura decreta il fallimento dell’azienda, e poco dopo nascono le Officine Zero.

 

Ai lavoratori si uniscono studenti, precari, freelance e il centro sociale della zona, lo Strike. Un articolo dell’edizione locale di Repubblica ritrae così il nuovo corso dell’officina:

 

Oggi oltre lo striscione “Studiare senza baroni, lavorare senza padroni”, si apre una cittadella di 4 ettari che brulica di attività: tra rotaie e vagoni c’è lo studentato autogestito Mushrooms; gli uffici per il co-working e la Camera del lavoro autonomo e precario; la mensa; i reparti di falegnameria, tappezzeria ed elettronica con macchinari funzionanti da rimettere in moto; gli spazi per reimpiegare le competenze degli operai in formazione sulle energie rinnovabili e il riuso di scarti elettronici. “Vogliamo ripartire dalle origini del movimento operaio – dicono proprio accanto allo snodo della Tav – unendo conflitto, mutualismo e produzione autonoma”.

 

Insomma, il workers buy out è un fenomeno nuovo nel nostro Paese che, grazie alla conformazione del tessuto imprenditoriale italiano, può ulteriormente svilupparsi. Ma gli ostacoli sono numerosi.

 

Anzitutto, per partire deve necessariamente esserci «un minimo di mercato»; in secondo luogo, la compagine sociale deve mostrarsi molto coesa e risoluta. Come dice Simone Broetto di Modelleria D&C, la cooperativa «non è una cosa che si può fare in qualsiasi azienda. Se non c’è la base sociale ben convinta e amalgamata è uno strumento molto, molto rischioso». Un altro grosso problema, inoltre, è la gestione del rapporto tra soci. Il passaggio alla cooperativa – mi spiega Alberto Grolla, sempre di Modelleria D&C – «implica un cambiamento di mentalità che per alcuni è spontaneo e per altri è più difficile e forse non arriverà mai. Alcuni nascono come dipendenti e rimangono dei dipendenti».

 

Uno dei maggiori studiosi di cooperative in Italia, il professor Bruno Jossa, è comunque convinto che in un momento storico come questo la cooperativa possa costituire un perfetto modello “alternativo” per le imprese in difficoltà. Al contempo, però, trova «stranissimo» e «inspiegabile» che ciò «succeda così di rado»:

 

È successo altre volte in Argentina, è successo nell’Italia degli anni ’70, ma non è la regola. Oggi che viviamo in una crisi così grave la soluzione sarebbe sempre quella di lasciare gestire le imprese ai lavoratori. Purtroppo c’è un’area ostile a questa idea. L’idea non è gradita dai “padroni” e, quello che è più strano (ma purtroppo è così) è che sono i sindacati che non appoggiano questa soluzione. Se i sindacati si convertissero a questa che è un’idea guida del vecchio socialismo, risolveremmo le crisi in modo magnifico. La crisi attuale non sarebbe più così grave e non perderemmo migliaia e migliaia di posti in poco tempo.

 

In For all the people – saggio sul movimento cooperativo statunitense – l’autore John Curl scrive che, nonostante una crisi sempre più dura e la sostanziale indifferenza dei media sull’argomento, gli «elementi embrionali di un’economia più cooperativa sono sempre più evidenti». Ora spetta alla società scegliere quale strada imboccare: «il mondo può emergere da questa crisi con una nuova economia, oppure può sprofondare in una distopia davvero cupa».

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